La strada per la Pachamama
Viaggiare da sola in Bolivia, sconfinare in Cile, sfiorare l’Argentina, e infine tornare a La Paz, è stato un rimedio miracoloso che in tre settimane ha rimarginato la ferita di un amore finito. Ogni viaggio solitario è solitario a modo suo e nonostante i tanti incontri questo è stato l’unico in cui non ho provato una sintonia profonda con qualcuno. Ma così come il gelo sul Salar de Uyuni, che mi è entrato anche nell’anima, l’intimo isolamento è stato parte della rinascita. Per la prima volta nella vita ero il mio unico punto di riferimento, e ormai che a casa non mi aspettava più nessuno, tanto valeva lo rimanessi anche per tutto il viaggio. Una circostanza che mi ha fortificata e trasformata più di quanto avrei potuto immaginare.
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Bienvenidos a Nuestra Señora de La Paz
La Paz è la città più alta del mondo. Tanto per avere un’idea, camminare a El Alto, il quartiere più in quota, equivale a trovarsi sulla cima del Gran Paradiso. Entrambi svettano a 4.061 m., ma a differenza del nostro massiccio, viaggiare in Bolivia significa salire ancora. All’inizio si ha il fiatone anche in piano, ma lentamente il corpo si adatta a vivere a oltre 4 chilometri di altezza. Dopotutto, è solo una questione di punto di vista, come accade quasi sempre nella vita.
Pensiamo alla confusionaria e stravagante La Paz. Se si atterra di notte, somiglia a un silenzioso presepe abbarbicato su due immensi versanti della Cordigliera Real. Sotto la luce del sole diventa un insieme di strade in folle pendenza e vertiginose distese di case che si confondono con la montagna. Oltre alle frequentatissime botteghe di stregoneria bianca e nera, ovunque ci si imbatte in donne-cholitas con gonne a balze e bombetta, eserciti di lucida-scarpe e maxi poster di Evo Morales (il primo Presidente indigeno è ormai al 4° mandato). Per non parlare del delizioso profumo delle empanadas appena fritte, del fragore di clacson e freni cigolanti dei micro (piccoli bus che passano con la stessa frequenza di una seggiovia) e del fruscio degli uccelli quando tutti insieme spiccano il volo verso un cielo più blu e più vicino del nostro. Per me che ero in quella fase dell’abbandono dove l’angoscia ti inchioda a letto la mattina, è stato un festoso trattamento d’urto di cui sarò per sempre grata a La Paz.
Per chi viaggia da solo è una città accogliente (che io scoperto a piedi con una local di lapazonfoot.com), ma per questioni di sicurezza, di sera, è meglio rimanere in centro. L’opzione migliore è avere una sistemazione nella zona di Sagàrnaga, l’antico quartiere dalle sublimi architetture coloniali. Qui, ci sono decine di piccoli locali con musica del vivo dove cenare a due passi dal proprio hostal, senza mai sentirsi soli.
La lezione di Suzie
L’ho provato decine di volte sulla mia pelle: partire in solitaria rende più empatici e recettivi anche nei confronti di chi si conosce appena. Con Suzie è successo così. La prima volta che l’ho vista ero sulla corriera tra le città di Sucre e Potosì, un trabiccolo che in quattro ore ha fatto salire ogni campesino che incontrava e altrettanti ne ha fatti scendere lungo la strada. L’ho notata perché era l’unica turista e stava seduta in prima fila ballando al ritmo della musica che sentiva in cuffia. Al contrario di me, Suzie era il ritratto della spensieratezza e della libertà. Con il suo spagnolo indurito dall’accento austriaco, attaccava bottone con tutti, senza legarsi con nessuno.
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Per risparmiare qualcosa, a Potosì abbiamo condiviso la stanza e ogni tanto ci capitava di parlare di noi. Da sei mesi girava da sola il Sudamerica, aveva 29 anni e voleva diventare mamma, peccato che covasse la certezza che non si sarebbe mai innamorata. Quando mi ha raccontato come sua madre fosse morta tra le sue braccia meno di due anni prima, lì per lì ho pianto, poi ho iniziato a rivedere le mie priorità e a considerare le mie vicende meno cupe. Tutto questo si svolgeva a 4078 m. in una deliziosa camera affacciata su una distesa di tegole rosse a due passi dalla Casa della Moneda, uno dei musei simbolo del Sudamerica.
Prendere lezioni di vita in un gioiello coloniale risalente al 1545 è un privilegio, rimanere malinconici un sacrilegio. Così, nonostante il mio umore andasse su e giù come le vie di Potosì, dopo aver gironzolato tra chiostri e mercati, all’ora del tramonto andavo a riposarmi sul tetto dell’Iglesia della Merced. Quel luogo aveva il potere straordinario di calmarmi. Lasciavo che il mio sguardo spaziasse oltre le facciate delle chiese infuocate dal sole e i vicoli illuminati dalle lanterne, fino al Cerro Rico, la montagna che domina la città e che nelle sue viscere custodisce un’immensa miniera d’argento ancora attiva. Riflettevo sulle spaventose condizioni di vita dei suoi minatori e su come da qualche giorno il mio dolore fosse meno acuto.
La struggente bellezza di Potosì fa stare bene, ma bisogna anche conoscere la tragedia umana che si perpetua nelle sue miniere. Nonostante il tour nei cunicoli del Cerro Rico sia l’attrazione di punta a Potosì, sconsiglio di visitarle. È molto più rispettoso e illuminante guardare “The Devil’s Miner”, il documentario che fa conoscere la storia vera di un bambino minatore nel Cerro, ma anche il rapporto profondo che hanno i boliviani con le forze della terra e la superstizione.
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Quando il viaggio si fa duro
La Bolivia è ancora un paese povero ma, in compenso la natura ha creato alcuni tra i paesaggi più suggestivi e maestosi del pianeta. Il Salar de Uyuni, la Laguna Verde, le Rocas de Dalì, i geyser Sol de Mañana, il vulcano Licancabur, tanto per citarne alcuni. Capolavori geologici che però ci si deve guadagnare, perché si trovano a un’altitudine compresa tra 4.200 m e 5.400 m quasi tutti concentrati nella Reserva Eduardo Avaroa. Ci si accede solo con i fuoristrada dei tour organizzati, giro che consiglio di iniziare dalla cittadina di Tupiza, in modo da godere della bellezza dei posti senza la marea di turisti che in maggioranza parte da Uyuni.
L’incredibile fatica fisica a contatto con una natura estrema mi deve aver curata, perché alla fine di quei quattro giorni riuscivo finalmente ad avere spazio negli occhi e nel cuore solo per ciò in cui ero immersa: notti stellate che sembrava volessero far cadere il cielo, albe incediate su deserti lunari, fenicotteri rosa che incedevano impettiti a 4.800 m e infine il Salar, gli 11.000 km² più irreali e candidi del Pianeta. Uno scenario di bianchissime zolle di sale (con nel mezzo un’isola di cactus da pampa messicana) che annullano l’orizzonte e riflettono la luce accecante che invade l’altipiano. Se si viaggia da soli non conviene prenotare il tour in anticipo, ma direttamente in una delle tante agenzie di Uyuni o Tupiza. Così è possibile verificare età e nazionalità dei partecipanti e scegliere di conseguenza a quale gruppo aggregarsi. Inoltre visto che i percorsi sono lunghi e dissestati meglio assicurarsi di viaggiare comodi, anche a costo di pagare un extra, considerando che la composizione ideale di ogni jeep è autista, cuoca e sei turisti al massimo. Per un’esperienza che si ricorderà per tutta la vita, saranno bolivianos ben spesi.
Nuova vita nell’Atacama
San Pedro de Atacama è stata la mia sosta imprevista, quella di cui ho dubitato fino a quando nel villaggio di Uyuni ho trovato una jeep diretta in Cile. Dopo un’altra notte di gelo e diverse ore di rocce, polvere e rettilinei perfettamente vuoti, ho fatto il mio ingresso in questo pacioso e tiepido paesino dalle case basse e dai prezzi ben superiori a quelli boliviani.
Benvenuta in Cile, mi sono detta. A San Pedro mi sono riscoperta serena e per qualche giorno sono stata felice e contenta di trascorrerci del tempo prima di ripartire per Salta, in Argentina. Scrivevo lettere, bighellonavo nei caffè all’aperto e mi fermavo a parlare con persone incontrate in Bolivia e che senza appuntamento avevo ritrovato lì. Ho girato i dintorni in bicicletta, e mi sono aggregata a un paio di gite che giudicavo riposanti. Prima alla maestosa valle della Luna e poi a guardare cadere le stelle nel deserto di Atacama, proprio la notte di San Lorenzo. Tranne l’altitudine (ero scesa a 2500 m.), nulla a prima vista era cambiato, eppure sentivo che il mio andare aveva completamente cambiato sapore. La morsa allo stomaco era pressoché scomparsa e provavo un’euforica voglia di viaggiare. Mi piace pensare che mentre percorrevo deserti e altipiani, vulcani e montagne, goccia a goccia lo spirito della Pachamama (la Madre Terra, in lingua quechua) mi restituiva la forza vitale che negli anni avevo perso per strada. Sull’aereo di ritorno mi sentivo talmente bene che sembravano trascorsi mesi da quando, sfibrata, ero partita dall’Italia.
Oggi so che la mia casa è dove sono io e che questo vale ovunque io mi trovi. Una consapevolezza nata durante questo viaggio, quando la paura della solitudine è scomparsa e il futuro si è aperto a infinite possibilità. Forse è questo tipo di felicità che faceva ballare Suzie sull’autobus. Lei, che pochi mesi dopo il nostro incontro, si è perdutamente innamorata, si è sposata e ora cresce il suo Lucas in Ecuador.