Il cacciatore di storie: un incontro nella brughiera delle Isole Ebridi
A largo della costa occidentale scozzese, fra la pioggia e l’oceano, navigano lingue di terra dal paesaggio aspro, in cui brughiera e basalto si alternano a imponenti scogliere e spiagge argentate. Sono centinaia, e perlopiù disabitate: le isole Ebridi. Ancora oggi, sia le Ebridi interne, e ancor più le Ebridi Esterne, restano ampiamente al di fuori dai macro-movimenti delle masse turistiche, e questa esclusione ha finito per essere essa stessa una peculiarità, tanto che qualcuno ha scelto di soprannominarle “Isole del silenzio”. Ma in quel silenzio vecchio di secoli parlano le storie, in cammino per diventare racconti.

Un giorno fortunato mi trovavo a Nord, nella piccola, moderatamente sperduta isola scozzese di Lewis, quando mi sono imbattuto in una di quelle storie lì. Aveva sei zampe, barba e criniera: quando incontri una storia così, devi per forza fermarti a fare due chiacchiere.
- Posso farti una domanda? Se non ti disturbo
- Certo che lo stai facendo - ma sorrideva - Chiedi pure
- Dove stai andando?
Era un tipo piuttosto strano. Per fargli quella domanda ero tornato indietro, ripercorrendo i chilometri di brughiera fatti dopo averlo incrociato mentre avanzava verso di me, diretto nella direzione opposta. Giusto il tempo di convincermi che non potevo farmi sfuggire un incontro così, e ho fatto inversione. Ad attrarmi era stata l’aria di trasandata eleganza della coppia: lui particolarmente barbuto ma distinto nelle sue vesti da viaggiatore, così come il suo compagno, un cavallo robusto e dal pelo foltissimo. E fossi stato un esperto di selle o finimenti, avrei detto che anche quelli mi parevano piuttosto eleganti.
- Ho ancora quattrocento miglia

Si chiamava Tony, parlava perfettamente gaelico, e da anni si faceva centinaia di miglia a piedi, assieme al suo cavallo Chief (Taoiseach in gaelico), alla ricerca di folktales da raccontare. Parlava muovendo appena la bocca, con un tono di voce molto basso. Nelle Ebridi quando c’è poco vento il silenzio è tale che potresti anche sussurrare, e si sentirebbe comunque.
Oltre alla quiete, in luoghi remoti come i faraglioni di Mangersta, nell’isola di Lewis, o il faro di Nest Point, in quella di Skye, il paesaggio assume forme particolari, innescando una reazione inevitabile: poiché corrispondenti a un immaginario romantico che possediamo già, quelle forme “le riconosciamo” - siamo tutti figli di quel secolo lì, diceva qualcuno - ed esse si accordano con una nostra sensibilità preesistente, arrivando a premere sui nostri sensi cariche di significato. La reazione chimica finisce così, con una speciale malinconia ad innestarsi sottopelle, in un punto imprecisato fra collo e stomaco, senza mollarci fino a quando non lasciamo di nuovo quei pochi, privilegiati luoghi in cui alture e oceano collaborano a comporre scenari magnifici e strazianti allo stesso tempo. E al silenzio si aggiunge la malinconia, altro ingrediente formidabile nello stimolare la predisposizione al racconto: Virginia Woolf scelse proprio Skye per ambientare le vicende di uno dei romanzi più importanti del Novecento, To the Lighthouse (Gita al faro in Italiano, pubblicato nel 1927), e nonostante l’ispirazione fosse più probabilmente dovuta ad alcuni suoi soggiorni estivi in Cornovaglia.

Secoli prima, le Highlands scozzesi e le Ebridi erano già operose fucine di storie, in cui queste prendevano forma e diventavano racconti. Separati dal resto della Gran Bretagna dalla barriera del gaelico, nelle Ebridi i racconti popolari sono divenuti i custodi di quella stessa lingua, che a sua volta ha permesso loro di sopravvivere rimanendo fedeli a sé stessi, tramandati di generazione in generazione attraverso tutto il Medioevo. Eppure, a metà del diciannovesimo secolo, con la narrazione orale e il gaelico che andavano rapidamente estinguendosi, il loro destino sembrava segnato.
Trasformazione o estinzione, il cammino naturale dei racconti popolari scozzesi sembra poter avere una sola direzione, e mai a ritroso. Per identificarli, archiviarli, proteggerli dalle prove del tempo, è necessario dedicarsi alla complicatissima impresa di inseguirne i vagabondaggi, risalendone la genealogia, fino a braccare quelle prime storie, anche nei luoghi più impensabili.
Come tutti i compiti particolarmente ardui, c’è bisogno di un mestiere apposito: un esperto capace di ritrovarle, di riconoscerle e ricostruirne i passi, per riportarle nella casa da cui erano partite.
Di un cacciatore di storie.

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Tony sembrava proprio uno di quei folcloristi del diciannovesimo secolo, l’ultimo di quei dotti esploratori che duecento anni fa in Scozia trovarono un tesoro di racconti, salvandoli dall’estinzione a cui il disuso dell’oralità li avrebbe condannati. Nel 1859 l’autore scozzese John Francis Campbell, profondo conoscitore di letteratura celtica, iniziò un intensissimo lavoro di campo, oggi collocabile in un ampio spettro disciplinare comprendente filologia, storia e antropologia, quando il gaelico all’infuori delle Ebridi e Highlands scozzesi era ancora una lingua oscura, pericolosa. Il gaelico scozzese ha origini celtiche, ed è uno stretto cugino di quello irlandese, con cui oltre all’origine condivide la storia piuttosto travagliata, e un declino irreversibile iniziato già nel Basso Medioevo. Dallo zenith dell’undicesimo secolo al vertiginoso calo del primo dopoguerra, è faticosamente sopravvissuto alla prova del tempo, e oggi l’UNESCO lo annovera come “definitely endangered” all’interno de L’Atlante delle lingue del mondo in pericolo (Atlas of the World’s Languages in Danger, 2009), mentre un censimento del 2022 attesta meno di 70mila parlanti. Fra questi, c’era Tony. Stava cercando, a modo suo, di fare lo stesso di quei “savi bizzarri”.
Al contrario mio, che stavo provando a registrare mentalmente ogni singola parola della nostra conversazione, Chief sembrava totalmente disinteressato alle chiacchiere del suo compagno di viaggio, muovendo le spesse zampe quel tanto che bastava per brucare ogni stelo a portata di morso.
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Così, immerso nell’erba alta, sembrava una versione campestre dei Kelpies, quegli spiriti-demone dalla forma di cavalli bianchi che infestavano i laghi del folclore scozzese. Col suo vagabondare, Tony stava cercando proprio racconti associabili all’immaginario dei Kelpies:
-Molte storie sono già tornate a casa. Qualcuna, forse, si aggira ancora tra i monti e le torbiere. Sono ancora lì, in attesa di qualcuno abbastanza paziente da cercarle nel modo giusto.
Si definiva uno storyteller, ma il compito che Tony si era prefissato a me ricordava molto di più le dinamiche della caccia. Sembrava stesse parlando di uno degli innumerevoli cervi che quando cala la luce escono da nascondigli introvabili per ripopolare la brughiera delle Highlands e mettere alla prova i riflessi dei pochi temerari che scelgono di percorrerne le strettissime strade con il buio. Ancora oggi, a parte l’eccezione di Skye, gli esigui visitatori delle Ebridi esterne si dedicano quasi esclusivamente a attività venatoria o pesca.
Pareva impossibile a quell’ora del giorno, ma persino lì alle Callanish Stones, un cerchio di pietre erette in epoca neolitica che ricorda il più famoso Stonehenge, e dove in quel momento sembrava non potesse esistere altro che erba e pietre e vento, cervi, lepri, e altri avventori notturni della brughiera avrebbero presto fatto la loro comparsa, non appena il sole fosse scomparso del tutto.
La fauna delle Highlands, mi diceva Tony, gode di spazi ampi e tranquilli, tanto sulla terraferma quanto sul mare, nei buchi del terreno come sul vento delle montagne. Lí nella brughiera, con una vegetazione quasi mai fitta e gli elementi antropici rarefatti e bassi, il profilo di una lepre o di un cervo rosso spicca ancora di più, dando l’impressione di essere ancora di più del loro vero numero, e di nascondersi ovunque.
Ogni tanto gli sfuggiva qualche parola che non comprendevo, e che quindi immaginavo essere gaelico (o l’accento, ma non gliel’avrei mai detto). A Lewis quella lingua non se n’è mai andata, e resta ancora adesso radicata nella popolazione locale, che vanta le percentuali più alte di tutta la Scozia per individui capaci di padroneggiare la lingua, con picchi di oltre il 70%. Tony lo parlava come prima lingua fin da quando era bambino. Pian piano, mi stavo rendevo conto che era sempre più lui a fare le domande a me, anziché viceversa.
-E tu, invece. Dove vai?

Dopo le Callanish Stones mi attendeva la costa di Uig (dal norreno Vík, baia, islandofili riconosceranno subito la parola), frastagliata e meravigliosamente vuota; le spiagge di Harris, le uniche al mondo bionde e canute allo stesso tempo; l’Old Man of Storr a Skye, ancora poderoso nonostante l’esposizione social; la ricerca delle lontre nelle Highlands; chilometri di brughiere sconosciute.
Avevamo parlato a lungo, poi l’avevo visto proseguire con lo stesso passo di prima, carico di un bottino di risposte molto più grande di quello che io fossi riuscito a ottenere da lui. Guardavo le sue spalle allontanarsi, senza riuscire a scrollarmi sensazione che stessero sorridendo. L’ultimo cacciatore di storie, a cui ero riuscito a porre un’ultima domanda, infilandola a tradimento nel saluto finale:
- Hai trovato molto?
- Non ancora abbastanza
Nonostante la risposta, mi era sembrato tutt’altro che deluso, quasi divertito. È un cacciatore esperto, conosce il modo giusto di muoversi. Troverà altre storie, le riporterà a casa.