Un posto dove stare

5 minuti di lettura

È il luogo dove ci riposiamo, consumiamo i pasti in comune, procreiamo, ci riuniamo con la famiglia e gli amici. La casa è la nostra ancora, il rifugio dal turbine della vita quotidiana, un luogo dove sentirsi al sicuro, e non importa se si tratta di un cottage in Inghilterra, di una robusta ger in Mongolia, di una capanna di fango nella piana del Nilo o di un minuscolo appartamento a Tokyo. 

Una robusta ger in Mongolia all'alba ©Kriangkrai Thitimakorn/Getty Images
Una robusta ger in Mongolia all'alba ©Kriangkrai Thitimakorn/Getty Images
Pubblicità

La casa non è solo un luogo ben preciso, ma anche uno stato mentale. La casa può essere la terra ancestrale della nostra famiglia, il luogo dove siamo cresciuti, il nostro primo rifugio solitario, oppure l’abitazione dove alleviamo i nostri figli. Perdere la casa – a causa di guerre, disastri naturali, dissesti economici – è una minaccia alla nostra stessa esistenza. In alcune società chi non ha una dimora stabile – i senzatetto – è spesso condannato all’ostracismo e guardato con sospetto. Per altre comunità, invece, come i nomadi della Mauritania sahariana, il fatto di non essere legati a uno spazio specifico è uno stile di vita, e la ‘casa’ di queste popolazioni si sposta con la sabbia e le stagioni. 

La nostra definizione di casa può cambiare nel tempo e mai come in questi giorni di pandemia ce ne stiamo accorgendo tutti, in tutto il mondo. Rintanati nella nostra casa, che ci protegge e al contempo ci opprime.

Tradizionali case tedesche a Rothenburg ob der Tauber ©LaMiaFotografia/Shutterstock
Tradizionali case tedesche a Rothenburg ob der Tauber ©LaMiaFotografia/Shutterstock

Per anni, dopo aver lasciato la mia città natale in Germania, sono rimasta convinta che quella sarebbe stata per sempre la mia unica casa. Ma con il tempo, mentre mettevo nuove radici in America, mi sono resa conto che la mia vecchia casa era rimasta solo un legame nostalgico, e se ancora la adoro, ormai l’ho lasciata fisicamente ed emotivamente. Disse David Steindl-Rast, un monaco filosofo del XX secolo: ‘La casa è il luogo dal quale partiamo, al quale siamo legati, ma anche il luogo di cui andiamo sempre in cerca’. 

Pubblicità
Il villaggio di Taos Pueblo in New Mexico costruito con adobe (mattoni di argilla) ©Bill Florence/Shutterstock
Il villaggio di Taos Pueblo in New Mexico costruito con adobe (mattoni di argilla) ©Bill Florence/Shutterstock

Anche il viaggio è una sorta di ricerca, e durante i miei viaggi ho scoperto l’incredibile ingegnosità degli uomini che adattano le loro abitazioni al clima, e ai propri bisogni e risorse. Gli indiani pueblo del New Mexico settentrionale modellarono case in adobe (mattoni di argilla) di forma irregolare, nelle quali si entrava dal tetto per mezzo di una scala a pioli. Per difendersi dai predoni e dalla tremenda calura estiva, i berberi di Matmata nella Tunisia meridionale scavarono cortili a forma di crateri nel soffice suolo desertico, con piccole camere laterali simili a un alveare sotterraneo. Gli indigeni miskitu, che vivono lungo le coste del Nicaragua e dell’Honduras, sistemano le loro case di tronchi di pino sulle palafitte per ventilarle e proteggerle dalle inondazioni. E gli yanomami del bacino amazzonico brasiliano rifuggono la privacy preferendo sentirsi protetti dalle loro enormi e rotonde case comuni. 

Se in alcuni luoghi i tipi e le tecniche di costruzione sono cambiati poco nel corso dei secoli, altrove la gente ha adottato una curiosa alchimia di tradizione e high-tech. Durante un viaggio nella Spagna meridionale mi fermai a Guadix, una deliziosa cittadina rannicchiata sullo sfondo delle cime innevate della Sierra Nevada. Qui una buona metà degli abitanti vive – in stile hobbit – nelle grotte scavate lungo i fianchi delle colline, con il fumo che esce dai camini imbiancati a calce. Mentre passeggiavo, una donna con un sorriso aperto come il cielo andaluso mi invitò a visitare la sua casa e mi mostrò orgogliosamente la sua pulitissima grotta. Il pavimento era di marmo e sull’insolito fornello gorgogliava allegramente una pentola di stufato. C’erano il telefono, il collegamento a internet e MTV, trasmessa dall’antenna parabolica. Versandomi un bicchiere di vino tinto, la donna disse dolcemente che non avrebbe potuto immaginare di vivere altrove. E poi urlò alla figlia di spegnere la musica, accese il computer e si immerse nel lavoro. Sarei potuta essere a Manhattan, se non fosse stato per le pareti inclinate e le piccole sporgenze di roccia. 

I granai di Ksar Ouled Debbab, Tataouine (tunisia) ©Aleksandra H. Kossowska/Shutterstock
I granai di Ksar Ouled Debbab, Tataouine (tunisia) ©Aleksandra H. Kossowska/Shutterstock
Pubblicità

Iscriviti alla nostra newsletter! Per te ogni settimana consigli di viaggio, offerte speciali, storie dal mondo e il 30% di sconto sul tuo primo ordine.

Per molti di noi la casa è un modo di esprimere la propria personalità, ciò che Carl Gustav Jung definì ‘lo specchio simbolico del proprio io segreto’. E Jung lo sapeva bene, avendo trascorso più di trent’anni a meditare nel suo elegante alloggio sul Lago di Zurigo. La mia casa a Los Angeles è stata costruita poco prima della seconda guerra mondiale e non era altro che un cubo trasandato, quando mio marito e io la comprammo diversi anni fa: per noi era una tela vuota, in attesa di essere riempita dalla tavolozza della nostra fantasia. E così l’abbiamo trasformata da sciatta a fantastica, dipingendo e personalizzando i nostri spazi. L’enorme e buio soggiorno è diventato un salone esotico con pareti in una calda tonalità arancione ornate da maschere portate dai nostri viaggi. All’esterno abbiamo realizzato un patio messicano, circondato da un tripudio di buganvillee e da un piccolo giardino di erbe aromatiche. Ma il cuore e l’anima della nostra casa è la cucina, sede di innumerevoli feste e luogo attorno al quale tutti sembrano gravitare quando ci si ritrova. 

Un forno tandoori ©Vanessa Matthews/Lonely Planet
Un forno tandoori ©Vanessa Matthews/Lonely Planet

Il focolare domestico ha qualcosa di magnetico, sia esso un fuoco di legna, un barbecue, un forno tandoori o una cucina a gas. Alcuni dei ricordi più belli dei miei viaggi sono legati all’invito nella cucina di qualcuno, per consumare un pasto in comune. Quasi tutti sono stati momenti deliziosi, come il sontuoso pranzo con agnello al rosmarino a casa di un viticoltore nella valle della Loira, in Francia; altri un po’ meno… rilassanti. A Taiwan, devo avere avuto una curiosa espressione mentre cercavo di mangiare una zampa di pollo, con gran divertimento dei miei ospiti. E nel sud del Messico mi sentii come una partecipante a un reality show televisivo quando mi venne offerto un piatto di cavallette marinate

Ciascun paese ha sviluppato le proprie tradizioni riguardo all’etichetta a tavola. Nelle nazioni a prevalenza musulmana, per esempio, si mangia sempre con la mano destra (la sinistra è considerata impura). Mangiare con le mani è consueto in tutta l’Asia ma assolutamente vietato in Brasile; trangugiare rumorosamente i tagliolini può essere considerato educato in Cina, ma non altrettanto in Italia se vi trovate davanti a un piatto di spaghetti. E se finire tutto quel che c’è nel piatto è un complimento in Europa e in America, in Thailandia indica al vostro ospite che avete ancora fame. 

Pubblicità

Queste differenze, però, hanno poca importanza in quel villaggio globale che è il nostro pianeta. Ricchi o poveri, paesani o cittadini, gente del posto o visitatori, il bisogno di riparo e sostentamento è al centro dell’esperienza umana. E la casa è il luogo dove riuniamo un gruppo di ‘attori’ che recitano lo spettacolo più suggestivo che ci sia: la vita. 

Pubblicato nel
Condividi questo articolo
Pubblicità