A piedi sul Monte Athos, un pezzo dell'avventura di Nicolò Guarrera

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Nicolò Guarrera è partito a piedi, da solo con il suo passeggino Ezio, nell’estate 2020 per fare il giro del mondo a piedi in cerca di Bellezza. Ora, mentre il ritorno a casa si avvicina - passo dopo passo - ha deciso di fare una deviazione per andare con il padre a visitare un luogo mistico e, a modo suo, esclusivo: il Monte Athos, in Grecia. Qui ha raccontato per noi questo pezzo di cammino.

Nicolò Guarrera in cammino tra i monasteri del Monte Athos © Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia
Nicolò Guarrera in cammino tra i monasteri del Monte Athos © Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia
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Mi sono sempre chiesto che fine abbia fatto Maria dopo la resurrezione del Cristo. I Vangeli dicono che il figlio, poco prima di morire sulla croce, l’abbia affidata a uno dei suoi discepoli, Giovanni, e che questi l’abbia protetta fino alla fine dei suoi giorni. Tradizione vuole che ciò sia avvenuto a Efeso, nell’odierna Turchia, e che i due vi si siano recati in barca. Prima di giungervi sembra abbiano fatto alcune soste, una delle quali in Grecia, presso la Penisola Calcidica, all’altezza del primo dito a partire da est. Il luogo doveva essere un incanto, perché quando Maria scese a terra se ne innamorò e chiese a Dio di proteggerlo: da duemila anni, questo angolino è conosciuto come “Il Giardino di Maria”. Ma forse è un altro nome a suonarvi familiare: stiamo parlando di Monte Athos. 

Una comunità di monaci ortodossi custodisce Monte Athos da oltre un millennio, quando l’imperatore bizantino Giovanni I ne sancì l’autonomia con un documento conservato ancora oggi presso la sua minuscola capitale, Karyes, un villaggio di trecento anime (l’unico di tutta la penisola). Un secolo più tardi, un altro imperatore, Alessio I Comneno, confermò piena indipendenza e sovranità territoriale ai custodi del Giardino di Maria. Da allora la situazione non è cambiata e sia Grecia che Unione Europea riconoscono un’autonomia de facto ai 350 chilometri quadrati che costituiscono la Comunità monastica di Monte Athos.

Il Diamonitirion, il permesso necessario per accedere alla zona © Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia
Il Diamonitirion, il permesso necessario per accedere alla zona © Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia

Come arrivare

Per accedervi è necessario un permesso, il Diamonitirion, dalla durata di quattro giorni e rilasciato a un massimo di centodieci persone al giorno, delle quali solo dieci non ortodosse. La peculiarità più famosa è però un’altra: a Monte Athos non sono ammesse donne. Facendo qualche ricerca, sembrerebbe che la motivazione sia nel voler lasciare a Maria l’esclusiva della presenza femminile sulla penisola. In realtà, parlando con Ioannis, uno dei monaci incontrati durante la nostra visita, capiremo che il motivo è ben più prosaico.

 Sono in cammino con mio padre da qualche giorno, siamo arrivati da Salonicco e prima di entrare a Monte Athos siamo passati per Ouranopolis, nostro porto d’imbarco. Il solo modo per entrare a Monte Athos è prendere uno dei traghetti che quotidianamente fanno la spola dal molo di Ouranopolis a Dafni, unico porticciolo della penisola. È anche possibile spingersi oltre e arrivare alle minuscole passerelle costruite sotto ciascun monastero. Tuttavia noi vogliamo esplorare il territorio e una volta scesi a Dafni ci avviamo a piedi sui sentieri che tagliano i fianchi scoscesi delle montagne.

Per la prima notte abbiamo preso contatto con uno dei monasteri del versante ovest, il complesso di San Gregorio (Aghion Gregoriou). È consuetudine chiedere ospitalità presso i monasteri e siamo davvero curiosi di arrivare e vedere com’è, cosa si fa, chi ci accoglierà. Nessuno dei due ha mai dormito in un posto simile.

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Il monastero di San Gregoriou © Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia
Il monastero di San Gregoriou © Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia

In cammino verso i monasteri

Dopo essere scesi a Dafni ci incamminiamo sull’unica via in terra battuta che s’inerpica verso l’alto, direzione monastero di Simon Petra, il primo sul percorso. Dopo due ore di strada, superato l’ennesimo vajo, una vista eccezionale si apre di fronte a noi. Il cielo imbronciato svela la cuspide azzurra del Monte Athos, in lontananza, mentre davanti a esso si erge il maestoso Simon Petra, fiero come un castello medievale.

Il papà davanti al monastero di Simon Petra © Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia
Il papà davanti al monastero di Simon Petra © Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia
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Proseguiamo finchè i sassi sotto le scarpe diventano uniformi, si rinserrano e si uniscono, fino a formare un sentiero ben tenuto che serpeggia verso l’ingresso. Poggiamo gli zaini, attorno a noi c’è silenzio, quell’assenza di rumori umani tipica dei luoghi dalla forte carica suggestiva. Parliamo a bassa voce per non rompere l’incantesimo. Sotto al grande arco che segna l’entrata, a sinistra, una targhetta in legno con lettere dorate svela la presenza dell’Archontariki, il piccolo ufficio dove chiedere ospitalità. Gettiamo uno sguardo, non c’è nessuno. Poco male, siamo qui soltanto per esplorare.

Saliamo una rampa, avvertiti da un cartello di non far foto né video: le bellezze di questi luoghi sono degne soltanto degli occhi. L’interno del monastero è un susseguirsi di angoli, affreschi, mosaici e porte misteriosamente chiuse. Potrebbero essere le celle dei monaci? Ci avventuriamo in un labirinto di scale che s’inabissa dentro al torrione arroccato sulla scogliera. Scendendo di livello l’aria si scalda, finchè un refolo improvviso tradisce la presenza di un’uscita: è il ballatoio di legno, siamo sopra il mare. Ci guardiamo meravigliati. L’edificio, fuso alla roccia, è costruito direttamente sopra la scarpata.

Torniamo indietro perdendoci tra muri e soffitti affrescati, fino a ritrovare gli zaini. Un monaco, finalmente, compare, ci saluta cordialmente e si ferma a chiacchierare con noi. È giovane, con la barba lunga tipica della tradizione ortodossa, “Per omaggio a San Giovanni Battista”, dice, “così come i capelli annodati dietro la nuca” perché come lui hanno scelto di isolarsi dal mondo e consacrare la vita a Dio: il santo nel deserto, i monaci sulla penisola. Ci chiede quale sia il nostro percorso, poi c’invita a visitare la chiesa, è appena arrivato un gruppo di pellegrini e il custode li sta guidando al santuario per rendere onore a una delle reliquie lì conservate.

© Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia
© Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia

L’accoglienza dei monaci

Lasciamo alle spalle i terrazzamenti sui quali i monaci coltivano quasi tutto ciò che consumano e proseguiamo su una mulattiera che si immerge nel bosco. A sinistra, le pareti verticali del monte; sul lato opposto, lo strapiombo sul mare. La vista su Aghion Gregoriou ci accoglie ricompensando la fatica. Il monastero è protetto da una baia, sotto di esso il mare azzurro diventa vetro liquido che s’infrange e ricompone sugli scogli. Stavolta veniamo subito indirizzati a un edificio in legno che funge da dormitorio comune, dove a ristorarci dalla sudata troviamo acqua fresca e i loukoumi, dolcetti a base zucchero. Li condividiamo con un gruppo di Rumeni, come noi appena arrivati.


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L’accoglienza in monastero © Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia
L’accoglienza in monastero © Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia

Per nostra fortuna parla un inglese perfetto, viene dagli States ed è qui da quando ha vent’anni. “Che cosa ti ha fatto finire a Monte Athos?” Dio, naturalmente. Ha vissuto gli ultimi quattordici anni della sua vita concentrandosi su quello che ha nel cuore e pensando a Dio. “Siamo fortunati perché possiamo dedicarci unicamente a quello - punta un dito verso il cielo - mentre il monastero si prende cura di noi, dei nostri bisogni materiali, come mangiare o dormire in un posto sicuro.” È Padre Ioannis a fare luce sul divieto alle donne di entrare e lo fa con semplicità, senza tirare in ballo leggende o dogmi religiosi. “Siamo umani, non angeli”, dice con un mezzo sorriso, “e per concentrarci su Dio, unicamente su di Lui, dobbiamo avere meno tentazioni e pensieri possibili. Per questo esiste la comunità. Per aiutarci nel cammino che abbiamo scelto.”

Il giorno seguente veniamo accolti nei monasteri di San Dionysiou e San Pavlov. Sembrano fortezze uscite da una fiaba. I monasteri sono diversi tra loro, e non solo nell’architettura. A San Dionysiou la messa è parlata mentre a San Pavlov viene cantata; in uno si cena alle cinque e mezza assieme ai monaci, benché su tavoli separati, mentre in un altro i visitatori consumano il pasto da soli e non più tardi delle quattro. Per avvisare che il cibo è pronto, si suona una campana oppure si batte un asse di legno con un martello cavo.

Il monastero di San Dionysiou © Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia
Il monastero di San Dionysiou © Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia
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La skiti di Aghia Ana

Passiamo l’ultima sera ad Aghia Ana, una skiti, ossia un complesso alle dipendenze di un monastero. È una sorta di villaggio e ognuna delle case ha la sua piccola chiesetta costruita di fianco. Stavolta veniamo ricevuti in maniera eccezionale: oltre a ouzo, acqua e dolcetti, vengono offerti caffè, pane, marmellata e olive verdi.

Il dormitorio della skiti ha l’aria di un ostello, con camerate fitte di letti a castello e un ingresso presidiato da un tavolo e due panche. Lo occupiamo assieme ai nostri nuovi amici, un quartetto greco formato da tre apicoltori e un ragazzo, Spyros, che parla un ottimo inglese. È stato nella parte remota di Aghia Ana, verso la montagna, dove non arriva l’elettricità e tutto è ancora più semplice rispetto a dove siamo ora. Ne parla con occhi sognanti. Questo luogo è intatto, le sue regole rigide lo proteggono, e da diciassette anni a questa parte, quando è venuto per la prima volta, ha visto cambiamenti negli aspetti fisici della penisola (una cappella restaurata, qualche strada messa a posto) ma non nell’atmosfera che si respira: pace, gratitudine e solennità.


La skiti di Aghia Ana © Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia
La skiti di Aghia Ana © Nicolò Guarrera/Lonely Planet Italia

I nostri Diamonitirion sono scaduti e sebbene desideriamo fermarci ancora, a malincuore capiamo che questo posto non è pensato per noi. Un gruppo di persone ha deciso di vivere in un minuscolo lembo di terra rinunciando coscientemente a ogni agio, distrazione e vizio per dedicare la sua vita interamente a una causa, e lo fa da mille anni, nell’unico posto che le è ancora concesso. È un equilibrio fragile, come sempre lo sono gli equilibri, perché il mondo esterno preme con le sue curiosità e preconcetti, tentando di omologare, diluire e magari, senza volerlo, togliere quei vincoli che per una volta, e senza tirare in ballo dei paradossi, garantiscono a queste persone di vivere secondo la loro forma di libertà.

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