I luoghi di "Portofino Blues"
In uno dei luoghi più esclusivi della Riviera ligure, l’8 gennaio 2001, la contessa Francesca Vacca Agusta scomparve misteriosamente dal giardino di Villa Altachiara, a Portofino. Il suo corpo fu ritrovato venti giorni dopo, in mare, al largo della Costa Azzurra: un enigma che tenne banco a lungo tra cronaca e gossip internazionale. Lo scrittore Valerio Aiolli ha recuperato le trame di questa vicende e l’ha trasformata in romanzo che ci fa riscoprire l’Italia del passato prossimo, con tutti i suoi picchi di sfrontatezza e i suoi tracolli: Portofino Blues, pubblicato da Voland. Liguria, Sardegna, Miami, Milano, Messico e Svizzera: i set di questa storia sono tanti e ognuno ci racconta qualcosa del mondo di allora e dei personaggi che lo hanno popolato. Ne abbiamo parlato con l’autore del libro, che è appena stato selezionato come uno dei dodici candidati al Premio Strega 2025.

Nelle prime pagine metti bene in chiaro che non ha senso chiedere a uno scrittore come mai abbia deciso di raccontare proprio una storia in particolare, quindi non te lo chiederò, ma vorrei sapere come ti sei legato a questa mentre la raccontavi.
Fin dal primo momento in cui ho iniziato ad approfondirla, me ne sono sentito legatissimo. Anche prima di conoscere tutti i dettagli e le circonvoluzioni. È come se avessi subito avuto la sensazione che fosse una storia talmente piena di risvolti diversi e potenti che avrebbe avuto un effetto leva dandomi l’opportunità di raccontare tanti pezzi di mondi, interiori ed esteriori, che per me erano molto stimolanti.
Ci sono tante lenti attraverso cui guardare a un libro e io cercherò di concentrarmi sui luoghi e il loro rapporto con la storia. Come mai un libro che racconta una storia legata a Portofino, che si intitola Portofino Blues, inizia dal Messico?
Si tratta di una questione compositiva, perché è come avessi concepito questo libro come una suite musicale e volevo che l’impatto fosse diverso, ma che in qualche modo richiamasse ciò che poi si sarebbe ritrovato in altra forma del libro. E a pensarci, nel primo capitolo ci sono tutti i temi che si sviluppano dopo: i vuoti, gli elicotteri, la sopraffazione, la violenza, il Messico. E poi perché Portofino sarebbe stata così presente che è quasi un senso di anarchica insurrezione.
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Come hai lavorato per entrare nella storia e familiarizzare con i suoi set?
Ho fatto molti sopralluoghi, ma in modo diverso rispetto a quando vado a scrivere un reportage. In quei casi è come se dovessi fare una radiografia del luogo, cerco di parlare con le persone, capire le coordinate principali delle questioni e ricavare l’ossatura di quel che sto guardando. IN questo caso, invece, è come se avvertissi un bisogno più simile a una seduta psicanalitica con il luogo. Andare lì, annusare, sentire, spiare, osservare le piccole cose, quelle che sfuggono al controllo del luogo stesso. Per esempio, alla parte messicana ho dedicato un mese intero, facendo con calma i vari luoghi in cui sono ambientate le scene.
A Portofino sono tornato diverse volte, sempre in una stagione diversa per acchiappare il mutamento e capire cosa cambiasse in me essendo in quei luoghi, perché volevo provare a sentire l’interiorità dei personaggi.
Cap Bénat, dove è stato trovato il cadavere di Francesca, è il luogo a cui mi sono connesso in maniera più immediata. Sarà che ci capitai in una giornata di fine inverno, con quei colori che a volte ci sono nel Mediterraneo del nord e il contrasto tra quella natura così abbagliante e il sapere che li era stato ripescato il cadavere di una persona lo ha reso un posto che mi ha colpito in modo particolare.

Nel corso della storia seguiamo anche il mutamento dei posti. Portofino parte come borgo marinaio e diventa il luogo del jet set preso d’assalto dai giornalisti. Della Costa Smeralda vediamo modificare addirittura i nomi. La loro crescita va in parallelo con vite vissute nel lusso che però finiscono tragicamente. Secondo te i luoghi risentono di queste parabole?
Si, a volte è difficile coglierlo perché è come quando invecchia una persona che si vede tutti i giorni, per cui è difficile cogliere i cambiamenti, per i luoghi è un po’ la stessa cosa e alcuni riflettono il cambiamento della società, purtroppo.
A me ha molto impressionato la nascita e la crescita dei luoghi della Costa Smeralda che hanno rappresentato in modo abbastanza arrogante la crescita della nostra società. Siamo andati in un luogo millenario a impiantare strutture artificiali e dare vita a fenomeni turistici del peggiore stile. Ora credo la situazione si sia un po’ calata ma ad un certo punto c’erano centinaia di persone sui moli ad aspettare l’uscita dei vip dagli yatch, una cosa che è di un pensiero di tipo coloniale.
Portofino dalla seconda metà dell’800 ad adesso è un po’ come se fosse marmorizzato nella sua bellezza abbacinante ma allo stesso tempo un po’ finta. Non ci sono più le persone vere, è tutto costruito per l’uso di chi può permetterselo.
Villa Altachiara sembra un veliero costantemente sotto attacco delle onde e dei venti. Come si trasforma un’incantevole villa anni Trenta in una prigione? Come la si fa ricadere in balia del mare? È la letteratura o la realtà che l’ha portata li?
Questo è il grande dubbio, perché quando si scrive una cosa tratta da una storia vera usando la letteratura, si usa una forma che a sua volta parte dall’immaginazione per poi andare a scandagliare i luoghi e le piccole aperture che la realtà ha lasciato. Io ho scritto la mia interpretazione della villa, con la mia voce, nel bene e nel male. Il mio modo di vedere quel luogo, anche per il modo in cui fu ristrutturata, mi porta a pensare che nei momenti di difficoltà personale per chi ci ha abitato potesse davvero diventare una sorta di prigione. Una cosa bella ma che ti intimorisce, che ti tiene un po’ a distanza. Probabilmente la protagonista quando ci viveva al massimo della sua forma non lo sentiva, ma nella parte finale della sua vita era quasi prigioniera di se stessa, e di conseguenza anche di questo luogo dove era reclusa d’estate ed in inverno.

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La distanza tra la villa e il borgo è il risultato di una scelta della famiglia di classe elevata di staccarsi dalla plebe, eppure i problemi della Contessa e del marito e dei figli sembrano così banalmente umani. Questo marcire a poco a poco della villa e dei suoi abitanti li avvicina alla gente comune?
La mia impressione è che quando le cose, le persone, la natura si guardano da lontano sono molto nette e distinguibili: la montagna è la montagna, il mare è il mare. Se ci avvicinamo di più e magari li guardiamo al microscopio, vediamo le molecole che compongono la roccia o l’acqua del mare e non notiamo più la differenza. Sono molecole che hanno una loro entità e che a seconda di come si uniscono danno vita a qualcosa di diverso. E la stessa cosa mi succede quando mi avvicino ai personaggi, da fuori c’è quello ricco, quello stronzo, quello debole, ma man mano che mi avvicino ne vedo i lati umani e quelli si assomigliano molto di più di quanto sia visibile da lontano. Quindi anche l’apparentemente buono avrà in se i germi della crudeltà e della cattiveria e i grandi ricchi avranno i problemi della vita comune, come essere amati, riuscire ad amare chi ti ama e viceversa, trovare qualcosa di importante da fare nella vita, e cosi anche queste differenza si riducono.
A pagina 126 dici “L’Italia ti frega. C’è troppa bellezza. Se nasci nel posto sbagliato non ne esci più”. Mi racconti meglio cosa intendi?
Io sono nato e ho sempre vissuto a Firenze, città piena di bellezza dal punto di vista del panorama urbano, ma non è un caso che Firenze soffra di un certo immobilismo culturale rispetto ad altre città. In parte perché è prigioniera del suo passato, ma del resto non potrebbe non esserlo. È come ereditare una fortuna e rimanere fermo nella situazione che ti sei trovato. Il rapporto con la bellezza ereditata è molto difficile: da una parte è stupendo essere a dieci minuti dal Lungarno, dove ci sono forme che hanno una storia e mi fanno stare bene. Se vivessi in un altro luogo sarei meno felice camminando, ma magari avrei una carica per poter immaginare mondi diversi, mondi migliori.

Quando citi l’architetto Mongiardino che ha rifatto la Villa dici che la bellezza deve essere necessariamente oggettiva, se vogliamo crederle. Come ti sei rapportato alla bellezza per scrivere il libro?
Non condivido il pensiero di Mongiardino. Quello che per me importa è come uno recepisce e considera la bellezza delle cose. Ruota tutto intorno a questo concetto, perché Francesca in qualche modo è legata mani e piedi a questa sua bellezza, che poi non è neppure quella classica, ma una forza attiva e non contemplativa. Lei aveva una personalità estremamente potente che riusciva a apparire bella per come si muoveva nel mondo e quando entrava in consonanza positiva con luoghi che a loro volta avevano una loro bellezza è come se fosse un lievito che dà la spuma alla sua vita. Ma la bellezza spesso ha un contraltare buio perché non è eterna e non è omnicomprensiva. L’universo è così: se c’è una cosa che va molto bene una andrà meno bene. Lei aveva puntato tutto su questa sua capacità di apparire bella e quando tutto il mondo di bellezza che le stava attorno è venuto meno le è crollato tutto addosso. Solo che gli altri sono scappati come topi, mentre lei ne è rimasta travolta.
Qual è il luogo che secondo te nel libro fa da vero contraltare alla villa?
Casa di Cascina Costa, che è ancora lì nella piana un po’ brumosa della Lombardia ed è la sede del museo della famiglia Augusta. Ha un suo stile e in qualche modo restituisce lo spirito degli Augusta prima maniera, con un incrocio di linee pulite. Dimostra un certo agio economico, ma senza voler ostentare. Racconta del momento in cui stanno costruendo la loro fortuna, ma non sono ancora nella fase del grande sperpero.