Viaggio in Mustang, nel Nepal più remoto

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A pochi chilometri dal Tibet e incastonato nella catena himalaiana, il Mustang è una delle regioni più remote del Nepal. Arrivarci è ancora un viaggio dal sapore antico, nonostante neppure un decennio fa sia stata inaugurata una strada che si inerpica faticosamente sui versanti delle montagne tra frane e ponti dissestati. Un viaggio che richiede pazienza, tempi lunghi e un buon spirito di adattamento. 

Ingresso all’Upper Mustang ©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia
Ingresso all’Upper Mustang ©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia
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Il percorso non si fa più solamente a piedi o a cavallo, come narrato dal giornalista e scrittore Tiziano Terzani nel suo Mustang. Un Viaggio, il resoconto del suo itinerario nel 1995 quando questa zona del Nepal aveva da soli tre anni aperto agli Occidentali. Eppure questo resta un posto a sé, un luogo incantato, di dimensioni spaziali e temporali uniche. 

Scorcio della strada che attraversa il Mustang ©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia
Scorcio della strada che attraversa il Mustang ©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia

Arrivare in Mustang

L’approccio al Mustang parte necessariamente dalla capitale del Nepal, Kathmandu, il punto di accesso dei voli intercontinentali. La città, che un tempo faceva parte della rotta hippy, è quella da cui si dipanano molti possibili itinerari montani, a piedi o in auto, e vari tour nelle diverse zone del Paese, caratterizzate da ambienti naturali, culturali e climatici estremamente diversificati fra loro. 

Il viaggio che si dirige verso il Mustang prevede un possibile volo interno, anzi due, per la verità. Lo scopo è quello di rendere il percorso più snello, per quanto possibile, almeno in andata. Si può prevedere così un ritorno tutto via terra (o optare anche per il contrario ovviamente, oppure per la medesima possibilità in entrambi i sensi di marcia). 

Da Katmandu esistono più voli aerei quotidiani in partenza per Pokhara, la seconda città più grande del Nepal, a quasi 900 metri di altezza e caratterizzata da una vegetazione tropicale. Bastano trenta minuti di volo, tempo permettendo, per raggiungerla. Può accadere, infatti, che i voli vengano cancellati, soprattutto durante il periodo estivo a causa dei monsoni.

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Un Chorthen nella Dhakmar Valley nei pressi di Ghami©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia
Un Chorthen nella Dhakmar Valley nei pressi di Ghami©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia

Il mio viaggio in Mustang

A Pokhara inizia il viaggio vero e proprio. Altra possibilità è invece quella di scegliere un volo diretto a Jomsom. Il che vuol dire un significativo pezzo di strada in meno, un aeroporto che mette i brividi, considerata la sua posizione (nel bel mezzo di altissime cime e con relative correnti con cui fare i conti) e la lunghezza della pista di atterraggio. 

E se già i voli nepalesi non brillano certo per sicurezza (tanto da essere banditi dallo spazio aereo extra Nepal) un velivolo per Jomsom è una scelta per gli amanti del brivido. Più sicuro è partire da Pokhara, raggiungibile anche via terra, considerando però una decina di ore di auto.  

Io opto per il volo aereo da Katmandu a Pokhara, prenotato tramite un’agenzia italiana che ha come referente un tour operator nepalese (non è possibile visitare il Mustang in solitaria, ma bisogna essere almeno in 2 persone, accompagnati obbligatoriamente da una guida locale nepalese autorizzata).

Incontri in attesa di un Lama Tibetano a Kagbeni, luogo d’accesso all’Upper Mustang ©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia
Incontri in attesa di un Lama Tibetano a Kagbeni, luogo d’accesso all’Upper Mustang ©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia
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La prima sosta dopo il pranzo è nei pressi di Jomsom. Ci si ferma a Marpha, a 2700 metri d’altezza. Lì si possono assaporare le mele più buone del Nepal. È un villaggio protetto dai venti, fatto di strette viuzze tra abitazioni di pietra bianca, bandierine di preghiera sparse ovunque e un monastero buddista tibetano che sovrasta i tetti piatti delle case. Il tempo di una passeggiata e si riparte. È già l’ora del tramonto. 

Jomsom è appena più in là, ci arrivo quando è già buio. Intravedo così una cittadina di poche case, qualche negozio e alberghetto. I pochi edifici sono allineati lungo la strada, ma la vista (me ne accorgerò meglio la mattina all’alba) è strepitosa, Il monte Nigiri (7061) è a un tocco di mano. E io ho dormito proprio di fronte alla vetta, presso l’Om’s Home, un hotel semplice, ma molto carino.  

Bandiere di preghiera svolazzano sulle valli del Mustang ©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia
Bandiere di preghiera svolazzano sulle valli del Mustang ©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia

A una distanza di una dozzina di chilometri si trova Kagbeni (2810) che è il punto di accesso all’Upper Mustang. È il villaggio situato alla confluenza tra i fiumi Kali Gandaki e Jhong e il suo nome ne è la testimonianza: in nepalese “kag” significa “roccia” o “blocco” e “beni” vuol dire “sacra unione”. È stato un importante passaggio della strada commerciale tibetana. Campi di mais, orzo e patate circondano questo villaggio dal fascino antico coi suoi edifici a due o tre piani dalle pareti bianche e i tetti piatti dove la legna da ardere e il fieno vengono messi a essiccare al sole per l’inverno. Le case di fango sono addossate le une alle altre, come all’interno di un labirinto, e un grande Gompa color ocra è abbarbicato in cima. Molti locali vestono ancora con i costumi tibetani. A Kagbeni si trova un’insegna buffa: “Yac Donald”, in giallo su fondo rosso. Il riferimento è immediato e, se la prima sensazione è quasi di rifiuto, si tratta in realtà di un luogo interessante, un punto di approdo e di sosta per numerosi viaggiatori in cui è possibile deliziarsi con un’ottima torta di mele. Kagbeni è induismo e buddismo, è riti sacri sul fiume da parte degli Indù la mattina presto, è un Lama tibetano che viene accolto con reverenza da parte degli abitanti, festa meravigliosa a cui ho avuto casualmente la fortuna di assistere.

Qui è anche dove ricevo il permesso per l’Upper Mustang. Per visitare il Mustang servono, infatti, due permessi: l’ACAP (Annapurna Conservation Area Project) dal costo 20 dollari americani per persona e il RAP (Restricted Area Permit) per l’Upper Mustang che viene controllato al check-point di Kagbeni e che costa 500 dollari americani per persona per 10 giorni di permesso.  

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L’ampia valle (a secco) del fiume Kali Gandaki ©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia
L’ampia valle (a secco) del fiume Kali Gandaki ©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia

Il viaggio prosegue alla volta del santuario di Muktinath (3660 metri) uno dei luoghi più venerati di tutto l’Himalaya, meta di pellegrinaggio per buddisti e induisti. Ai piedi del santuario c’è il villaggio, polveroso e affascinate. Si percepisce che siamo in alta quota. Pellegrini indiani e buddisti a piedi e trasportati da cavalli e motociclette sollevano la terra sabbiosa e si dirigono verso la scalinata che conduce a un Buddha posizionato in una conca assolata ai piedi di altissime cime. A pochi metri di distanza, lampade votive e campanelle induiste accanto a una vasca di acqua miracolosa che sgorga da 108 cannelle, numero sacro per i Buddisti. Ci sono sadhu, gli asceti indiani e himalaiani cosparsi di cenere, donne indiane coloratissime e tibetani dai lineamenti mongoli. È un’umanità varia e composita. Un mondo che sembra fuori dal tempo, una digressione che ricorderò per sempre, prima di tornare verso la “strada principale” diretta a nord. 

Difficile quantificare il tempo di percorrenza tra fermate e via dissestata. Qua e là villaggi di case sparse nel nulla, abitazioni dipinte di bianco con la legna sul tetto e le finestre decorate col bordo nero, muretti a secco, muri di preghiera, chorten (reliquiari e rappresentazioni tridimensionali dell’universo Buddhista) e monasteri buddisti disseminati in questo paesaggio incredibile. Proseguo fino a Tsarang, col suo vasto labirinto di campi, filari di salici e case separate da muri in pietra. Il villaggio di Tsarang, uno dei luoghi più religiosi e seconda città del Mustang, è un monastero buddista, un’antica fortezza e uno scenario naturale mozzafiato. Forse, uno dei luoghi più emozionanti che abbia mai visto. Qui dominano le vette di Nilgiri, Tilicho, Annapurna e Bhrikuti. 

Il confine con il Tibet si avvicina sempre più. Poi compare Lo Manthang, la mitica capitale del Mustang. È una visione dall’alto. L’unica città tibetana circondata da mura rimasta intatta è un incanto. Fondata nel 1380, al suo interno è un compatto insediamento con un tanto di Palazzo Reale e numerosi Monasteri. A Lo Manthang assisto alla cerimonia del Tiji Festival: il termine viene da “ten che”, letteralmente “la speranza del Buddha Dharma che prevale in tutti i mondi”, dura tre giorni e viene celebrata in maggio nel ventisettesimo, ventottesimo e ventinovesimo giorno del calendario tibetano. Si tratta di un’esperienza unica ed è uno dei momenti più intensi della religiosità buddhista del Mustang. Esserci è un privilegio. 

Un momento del Tiji Festival a Lo Manthang ©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia
Un momento del Tiji Festival a Lo Manthang ©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia
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I monaci eseguono un lungo rituale il cui scopo è quello di proteggere gli uomini ovunque si trovino e di purificare il paesaggio, le case e la gente del Mustang da influenze negative. La celebrazione invoca anche un monsone abbondante. Proprio per questo si svolge al termine della stagione secca in questa zona difficilmente raggiunta dai Monsoni e in cui la siccità sta diventando sempre più un problema consistente. 

La festa risale al XV secolo e si svolge nella piazza principale di Lo Manthang accanto al palazzo reale. Sul muro di quest’ultimo, il primo giorno del festival, viene appeso un antico Thangka, ossia uno stendardo buddista, vecchio di almeno tre secoli e che raffigura Padma Sambhava. 

Il festival inscena la storia di Dorje Jono, una divinità del buddhismo Vajrayama che combatte contro i demoni che attentano all’integrità del Regno di Mustang. Si tratta di un rito simbolico complesso e articolato che prevede cinquantadue danze cham, tipiche del buddismo tibetano, con differenti maschere e pregiati costumi in broccato e rappresenta l’eterna lotta fra il bene e il male. Una processione per le vie della città e altri rituali decretano la morte del male la fine dell’ultimo giorno. Ogni attimo è una sorpresa. Comprendere il significato di tutto ciò che sta accadendo è pressoché impossibile. Al ritorno sarà lo stimolo per procedere con ulteriori letture e e apprendimenti. 

A Lo Manthang resto tre notti, troppo poche in relazione al fascino del posto e al desiderio di vagare dall’alba alla sera tardi per i suoi vicoli, oltre che assistere al festival. Il vento è sferzante il pomeriggio, il resto è cielo blu, silenzio, mantra ripetuti (Om Mani Padme Hum, il più recitato in Tibet), suoni legati a riti antichissimi, passi di chi prega con la Mala (rosario meditativo utilizzato per tenere il conto dei mantra durante la pratica, ma anche come oggetto sacro e cimelio di famiglia) tra le mani. È il bestiame che fa ritorno la sera, sono uomini e donne che camminano in un deserto di alta quota in una dimensione quasi magica, per noi inimmaginabile. Il mio albergo, Caravan Hotel, senza riscaldamento e acqua calda, era molto semplice, ma pulito.

Interno di un monastero tibetano buddista durante la preghiera, la mattina presto ©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia
Interno di un monastero tibetano buddista durante la preghiera, la mattina presto ©Paola Scaccabarozzi/Lonely Planet Italia

Il viaggio di ritorno può prevedere moltissime visite, a cominciare da Ghami (3520 metri), un piccolo borgo in mezzo a campi coltivati, nei cui pressi si trova il muro Mani (muro di preghiera) più lungo del Nepal. Il mio itinerario prosegue poi lento per Pokhara con la tappa notturna a Kagbeni.

La strada è faticosa e molto dissestata. Strapiombi ovunque e massi sparsi qua e là. Scendiamo di parecchio, la vegetazione cambia. Tutto è verde e rigoglioso. Tappa notturna a Tatopani, 1200 metri scarsi. Dormiamo presso l’Hotel Hotspring, dove ci sono le terme (non sono affatto un granché ma sono molto apprezzate dai locali), sosta tecnica dove rischiamo di restare molto più a lungo del previsto: il ponte che ci collega alla strada principale per Pokhara è crollato durante la notte a causa delle piogge. Se in alcune zone del Nepal la siccità costituisce un problema sempre più grave, in altre si fanno regolarmente i conti con la violenza dei Monsoni o dei pre-Monsoni, come in questo caso. Ma i nepalesi sono abituati e solerti e con sole quattro ore di ritardo si parte per arrivare a Pokhara giusto per cena. Lì soggiorno presso l’Attiri Resort, molto bello. Ma la scelta di hotel a Pokahra è molto ampia.  

Il giorno successivo è unicamente di trasferimento. Le ore sono tante, circa una decina per arrivare a Kathmandu. Il Mustang è altrove, un altro mondo meraviglioso che mi resterà appicciato per sempre. Con il desiderio di tornarci… al più presto. 

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