La legge del sangue: dentro una kulla in Albania

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Vista da fuori, la kulla di Theth non ha niente di speciale: è una semplice torre in pietra, non troppo alta, con poche aperture più simili a feritoie che a vere e proprie finestre. E invece questa casa-fortezza circondata dalle montagne, oltre a essere una delle più note e meglio conservate nel nord dell’Albania, ha una storia affascinante da raccontare: è una delle torri di autoreclusione in cui si nascondevano i perseguitati dal Kanun, antico codice consuetudinario albanese che regolava anche le faide di sangue.

La kulla di Theth ©CA Irene Lorenz
La kulla di Theth ©CA Irene Lorenz
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Le misteriose origini del Kanun

Le origini del Kanun (dal greco kanon, regola) sono antiche e oscure. Bisogna aspettare il XV secolo per averne una prima codificazione: a crearla è il condottiero Lek Dukagjini, un contemporaneo di Giorgio Castriota Scanderbeg (un nome che suonerà certamente familiare a chi è passato da Kruja, cittadina a un’ora d’auto da Tirana fortemente legata al mito di questo eroe nazionale albanese). Per una prima trascrizione – che viene realizzata in ghego, il dialetto del nord - bisogna attendere invece gli inizi del Novecento: se ne occupa il padre francescano Shtjefën Konstantin Gjeçov. Già prima della codificazione operata da Dukagjini, però, il Kanun era stato tramandato oralmente per secoli: difficile dire con certezza a quando risalga la sua creazione.

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Diffuso nelle regioni montuose del nord dell’Albania, zone remote e per lungo tempo di difficile accesso, il Kanun regolava qualunque aspetto della vita degli abitanti delle montagne albanesi: l’ordinamento famigliare (organizzato in clan e di impostazione patriarcale), il matrimonio, la suddivisione delle proprietà, i prestiti, l’ospitalità... e anche l’istituto della gjakmarrja, cioè il dovere di vendicare l’uccisione di un proprio congiunto uccidendo l’assassino o un suo parente maschio fino al terzo grado di parentela. Impossibile sottrarsi a questo obbligo: la pena era la perdita dell’onore. Anche per chi era “chiesto in morte” non c’era via di scampo: accantonata la possibilità di ottenere il perdono, che doveva essere certificato dalla comunità e seguire una procedura particolare, non restava che rifugiarsi nella propria casa-torre – la kulla, appunto - senza uscirne più.

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Il dovere della vendetta

Mentre cammino verso la kulla di Theth, che si trova ai margini del piccolo villaggio di montagna, ho in mente Gjergj Berisha, il protagonista di Aprile spezzato di Ismail Kadare, tra i più importanti autori albanesi contemporanei. Pubblicato nel 1978, il romanzo è ambientato tra gli sperduti altipiani dell’Albania settentrionale in un passato indefinito, precedente all’avvento del regime comunista. Il protagonista si destreggia suo malgrado tra le spire del Kanun e, sebbene la storia sia chiaramente di finzione, aiuta a immaginare la vita di una comunità regolata dalla “legge del sangue”. Gjergj ha poco più di vent’anni quando, non potendo più rimandare oltre il suo destino, compie controvoglia il gesto che la famiglia e l’intera comunità si aspettano da lui: vendica la morte del fratello sparando al suo assassino. Questa nuova perdita si aggiunge alla serie di omicidi prescritti che, generazione dopo generazione, hanno già decimato la parte maschile delle due famiglie coinvolte. Come previsto dal Kanun, Gjergj ora ha un mese di tempo per vivere indisturbato: trenta giorni in cui può ancora viaggiare, camminare per strada alla luce del sole, chiudere i suoi affari o sposarsi, se lo desidera. La sua tregua scadrà a metà aprile e a quel punto, se vorrà evitare di essere a sua volta ucciso da chi ne avrà il diritto, cioè da un parente maschio dell’uomo a cui ha appena sparato, dovrà vivere da recluso.

Theth è un piccolo villaggio tra le montagne ©Matthew Figg
Theth è un piccolo villaggio tra le montagne ©Matthew Figg
L'interno della kulla di Theth
L’interno della kulla di Theth è organizzato su più piani © Gabriele Calabrese
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La vita di privazioni nella kulla

La kulla di Theth, che pare abbia più di 400 anni, può essere visitata (l’ingresso è a pagamento) e restituisce un’idea di come dovevano apparire anticamente anche le altre case-torri di queste regioni montuose albanesi. Gli interni sono spogli ed essenziali e la luce è quasi inesistente: le strette feritoie servivano d’altronde a tenere sotto controllo l’ambiente esterno da una posizione privilegiata, dunque era utile che non fossero molto ampie. Chi si rifugiava in queste torri poteva farlo in modo continuativo o meno, a sua discrezione, per giorni, mesi o anche anni: era il solo modo per sfuggire a una morte certa. Pur rinunciando, di fatto, alla vita.

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