Che cosa è la felicità? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe di Progetto Happiness

Gli ultimi video postati da Progetto Happiness su Instagram quando mi preparo all’intervista mostrano la caccia a piedi nudi nella savana degli Hadzabe in Tanzania, le scarnificazioni tradizionali delle donne Suri in Etiopia, l’armonia totale con la natura degli Tsaatan in Mongolia. Ecco perché, quando la call ha inizio e si avvia la fotocamera, mi aspetto di vedere Giuseppe seduto all’ombra di un grande albero in mezzo alla savana o in una yurta per fuggire alla neve, magari con il cellulare in una posizione instabile per rintracciare il segnale ballerino in una località ai confini del mondo. Invece è dietro a una scrivania, in un ufficio simile a tanti altri a Milano.

Giuseppe con le donne Suri in Etiopia © Progetto Happiness
Giuseppe con le donne Suri in Etiopia © Progetto Happiness
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“Ero in Guatemala, ma purtroppo non è andato in porto un reportage e sono dovuto tornare. Sai, è un paese molto caldo ed era troppo rischioso proseguire, tra narcos e altri ostacoli; quindi, ho preferito portare a casa la pelle mia e del mio team. Si trattava di un reportage per Action Aid sulle famiglie che vivono nel basurero di Guatemala City, una delle discariche più grandi al mondo. Per entrare avrei dovuto rischiare di essere arrestato. Chiaramente io mi preparo prima di fare questi viaggi, ma nelle mie ricerche non c’era traccia di tutto ciò perché sono recentemente cambiate tutte le dinamiche. Se prima era il Far West e migliaia di persone vivevano dentro la discarica, adesso hanno smantellato tutto, hanno chiuso i cancelli, ci sono delle guardie che controllano, quindi avrei dovuto aggirare la sicurezza e per entrare sarei dovuto passare da un quartiere molto pericoloso, che si chiama il Gallito, controllato dai Narcos. Sebbene l’adrenalina e il rischio mi piacciano, certe volte capisco che non ce n’è, e mi sono ritirato.”

Mi piace quando l’intervista entra subito nel vivo.

Ti succede spesso di trovarti in queste situazioni?

“Che i piani non vadano come previsto ormai fa parte dei piani e la flessibilità è uno degli strumenti principali per svolgere il mio lavoro, ma con gli anni ho affinato un sesto senso per cui penso di sapere quando posso spingermi e rischiare un po’ di più e quando no. Questa volta percepivo che non era il caso. Anche perché non sono da solo, viaggio sempre con altri due ragazzi e sento la responsabilità del team. Loro si fidano di me, quindi se ci lanciamo a fare qualcosa è perché io penso che si possa fare. E sebbene parliamo di felicità, spesso i nostri argomenti sono delicati. Ci troviamo in luoghi e situazioni ai limiti. Per esempio, sono appena tornato dalla Colombia, dove abbiamo fatto un reportage sulla miniera di smeraldi più importante al mondo, nella regione del Boyacà. Lì ci siamo addentrati nelle viscere della terra per documentare la vita dei guaqueros, che sono dei minatori illegali. In realtà la storia è molto più romantica, perché sono le multinazionali, che hanno comprato i terreni dal governo, a rendere illegali le comunità indigene che fino a quel momento avevano sempre vissuto estraendo smeraldi. Ora combattono per mantenere il controllo di quei territori e noi siamo entrati nelle miniere con loro. E lì si rischia la vita entrando per chilometri nel ventre della montagna: non si respira, c’è poco ossigeno, c’è tanto caldo, non devi soffrire di claustrofobia.

Poi ci sono stati altri casi, in Colombia o in Brasile, in cui abbiamo intervistato i narcos. Perché coinvolgere i criminali nella ricerca della felicità? Perché io credo che sia un discorso trasversale che riguarda tutti quanti, criminali, bambini, animali. E lì rischi tantissimo, sei con delle persone che chissà cosa hanno fatto solo qualche ora prima, eppure quando faccio questo tipo di reportage mi sento molto più sicuro rispetto ad altre volte, perché per assurdo sai che è tutto controllato e sei con persone che ti hanno portato lì di cui ti fidi.

Però è la prima volta che davvero devo annullare un reportage.”


Il team con gli Hadzabe in Tanzania © Progetto Happiness
Il team con gli Hadzabe in Tanzania © Progetto Happiness

Progetto Happiness è l’avventura di Giuseppe Bertuccio d’Angelo, che con il suo team interroga personaggi e popolazioni in giro per il mondo in cerca delle tante diverse formule per essere felici. Nel farlo crea reportage e documentari che colgono la vita quotidiana di tanti angoli del pianeta a cui spesso non pensiamo o a cui non abbiamo facilmente accesso.

Come trovi i contatti per raggiungere storie così specifiche in tutto il mondo?

“Tanta ricerca, tante domande a persone diverse. Si parte magari dal contatto locale, che può essere una guida turistica che conosce benissimo il territorio, altre volte in loco parlando con un tassista, con un panettiere. La ricerca è costante. Parto dall’Italia studiando, leggo libri, guardo tutto quello che riguarda l’argomento che mi interessa. Mentre studio, leggo, ascolto, ricerco online i contatti e parallelamente parlo con i fixer, che sono la figura che agevola il viaggio in loco. Arrivo con i miei contatti e le mie idee, ma mentre sono lì magari esce una storia a cui non avevo pensato. Ad esempio, nelle Filippine, non avevamo intenzione di entrare dentro un carcere, ma chiedendo a un tassista appena arrivati a Manila, lui ci ha raccontato la storia di un carcere in cui lui riusciva ad accedere per portare dei prodotti in maniera illegale e abbiamo capito che era facile entrare. Alla fine, poi non era così facile, ma ci siamo riusciti ed è stato un gran reportage”.

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Giuseppe in Mongolia © Progetto Happiness
Giuseppe in Mongolia © Progetto Happiness

Pochi minuti di chiacchierata bastano a capire che la ricerca della felicità è una chiave che apre un’infinità di porte diverse e che il metodo di Giuseppe è legato a un grande approfondimento dei temi che tratta. Il titolo stesso del progetto potrebbe trarre in inganno, far pensare a un immaginario un po’ hippie, mentre l’autore e il suo team sono pronti a scontrarsi con realtà complicate, mettendo in discussione ogni facile rappresentazione del mondo. Ma tutto questo lavoro sa di traguardo raggiunto, allora vogliamo capire cosa c’era prima e come tutto è iniziato.

“Io volevo fare il giro del mondo. Metto da parte i soldi lavorando durante l’università e poi parto, siamo nel 2014. 365 giorni in giro per il mondo con lo zaino senza documentare praticamente nulla. Era una cosa che facevo per me. Torno a casa e penso che quella era la vita che desideravo, però ora mi dovevo fermare, guadagnare un po’ di soldi per fare la stessa roba ogni anno e poi fermarmi, ricaricare il salvadanaio e ripartire. Non aveva molto senso, mi sembrava una vita sacrificata, in cui il viaggio restava un hobby mentre io volevo che diventasse un lavoro. Il desiderio più grande che avevo era diventare reporter, ma non sapevo che storia raccontare, e quindi ho iniziato raccontando la storia di un uomo medio che vuole trasformarsi in uomo di ferro, in un Iron Man. Avevo individuato in quella storia una bella metafora di trasformazione che serviva anche a me per allenarmi e poter rifare quel viaggio, quel lavoro che io sognavo. Ai tempi sentivo che mi mancavano delle qualità personali: la determinazione, la costanza, il sacrificio. Quindi, mi alleno per partecipare all’Iron Man, in quest’anno il mio carattere si forgia. Condivido ogni giorno sui social questa trasformazione e funziona, iniziano a seguirmi migliaia di persone, non tantissime, ma mi piace la risposta che mi danno, perché sono coinvolte e quindi capisco che quella è la strada. Stavo raccontando la mia storia e l’evoluzione sarebbe stato raccontare la storia degli altri. Mi concentro sul tema della felicità perché pensavo fosse la cosa più importante al mondo. Ed è così che è nato il Progetto Happiness, la soluzione per vivere di viaggio, diventare reporter e scoprire le storie della felicità in giro per il mondo”.


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Come è cambiato nel tempo il progetto Happiness?

"Innanzi tutto, all’inizio cercavo delle risposte attraverso storie personali di individui con vite straordinarie, personaggi singoli che secondo me potevano insegnare qualcosa sulla loro visione della felicità. Poi sono passato a una visione più sociale, avvicinandomi a ONG e realtà più drammatiche, andando in luoghi in cui la felicità sembrava non esserci. Pensavo che sarebbe stato il posto giusto dove trovare l’essenza e credo mi abbia fatto bene immergermi in situazioni dove la felicità coincide con il sopravvivere. In quest’ultima fase si uniscono la felicità personale, sociale e ambientale. Ho capito che senza il rispetto e un equilibrio con l’ambiente non ci può essere neppure equilibrio sociale o personale.

È cambiato anche il modo in cui lavoriamo. All’inizio ero totalmente da solo mentre adesso c’è un bel team, formato da me e i registi Nicola Guaita e Davide Fantuzzi. Senza di loro i reportage non sarebbero assolutamente così. Mi danno la possibilità di essere presente nel momento, di dimenticarmi degli aspetti tecnici e questo è importantissimo per la resa finale. Ho la percezione completa della situazione e della persona che ho davanti anche grazie a loro che si prendono la briga di tutta la parte tecnica."

Qual è la giornata tipica di un cercatore di felicità?

"Quando sono qui passo tanto tempo insieme ai ragazzi per editare e montare. Cerchiamo di rendere i reportage sempre più fruibili ed accessibili a tutti, alle persone sordomute o di altre nazioni, per cui ogni video è doppiato in tante lingue e ci sono i sotto titoli. Direi che qui la vita di un cercatore di felicità si divide tra post produzione e ricerca di progetti nuovi. Quando mi emoziono in un determinato modo, so che quella è una storia giusta.

Durante il viaggio è tutta un’altra cosa. Devo mettere in pratica e vivere quello per cui mi sono preparato nelle settimane precedenti. Non ti posso dire che sia il momento più bello di tutti, ma sicuramente è il coronamento di questa preparazione. Anche la ricerca mi piace molto perché è in quel momento che mi immagino e cerco di visualizzare quel che succederà. Lo scrivo, così abbiamo una scaletta, ma poi puntualmente succede l’opposto, quindi siamo anche molto preparati ad andare in free style."


Nella prigione di Manila © Progetto Happiness
Nella prigione di Manila © Progetto Happiness

Come si fa a sostenere un progetto così complesso e duraturo nel tempo dal punto di vista economico?

"Con la credibilità che si cerca di guadagnare nel tempo così che anche sponsor importanti si vogliano associare alla nostra immagine. Non ne abbiamo molti perché cerchiamo di mantenere il contenuto il più pulito possibile, ma ci sono degli sponsor che sposano il progetto. A questo si aggiungono le monetizzazioni di youtube, e il tutto diventa sostenibile.”

Sei uno dei pochi che non ha ancora scritto un libro. Hai dei progetti editoriali in programma?

“In realtà ho un contratto con una casa editrice da circa tre anni, ma quando l’ho firmato l’ho fatto in modo superficiale. Non mi sentivo ancora maturo per scrivere un libro. Quindi sto aspettando di sentirmi pronto per poterlo scrivere nel modo giusto.

Un mesetto fa abbiamo portato in un cinema di Roma il reportage sugli Hadzabe, in anteprima. C’è stata una risposta straordinaria, abbiamo riempito la sala per due giorni ed è stato un bagno di affetto. Non abbiamo molte occasioni di incontrare la nostra community, ma in questo caso abbiamo dato vita al reportage: tutto il team era lì, le persone potevano confrontarsi con noi, è stato bellissimo. È un passo fuori da Youtube, succederà di nuovo. Il desiderio però è anche di fare una mostra fotografica, visto che stiamo migliorando sotto quell’aspetto, e poi sarebbe bello approdare su altre piattaforme di streaming.”

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In Cina con lo shifu Shi Miao Hai © Progetto Happiness
In Cina con lo shifu Shi Miao Hai © Progetto Happiness

Abbiamo parlato degli aspetti pratici, organizzativi, editoriali. Abbiamo tolto di mezzo gran parte dei dettagli, così che ora si possa arrivare al cuore della questione. Del resto, non capita tutti i giorni di trovarsi davanti ad un esperto di felicità.

Ponendo così tante volte la domanda fondamentale “che cosa è per te la felicità’”, quali sono le risposte che più ti hanno colpito?

“Te ne posso dire alcune che sembrano banali, ma che per me sono importanti. Ad esempio, il ragazzo che vive in Abruzzo come un hobbit mi ha detto “io non anelo alla felicità, io anelo alla contentezza”. Ogni volta che penso a lui, me lo immagino davanti ad un piatto di fagioli, nella sua contea, sereno, contento, che apprezza e si gode le piccole e gigantesche gioie del quotidiano. Potrebbe sembrare deludente, ma per me è un insegnamento prezioso. Un’altra risposta molto più drammatica, ma che porto nel cuore, l’ho trovata quando ho passato due mesi sulla nave di SOS Méditerranée: quando la squadra di salvataggio ha portato in salvo 230 persone che scappavano dai campi di tortura della Libia, uno dei ragazzi mi ha risposto “chiamare mia madre per dirle che sono ancora vivo”. E questo è qualcosa che non riesco mai a dimenticare. Poi ce ne sono tantissime, ogni risposta è bellissima ed è legata all’esperienza che ho vissuto nel cercarla. L’ultima è stato vivere tre giorni con gli Hadzabe, gli ultimi cacciatori in africa, il capo tribù mi ha detto “cacciare, dormire e mangiare”. Quella è la felicità spogliata di tutto il superfluo.”

© Progetto Happiness
© Progetto Happiness
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C’è un aspetto etnografico anche nel lavoro di Giuseppe, e pertanto anche una dinamica in qualche modo di potere. Presentarsi con una videocamera e chiedere cosa significhi essere felci, ovunque ci si trovi nel mondo, mi chiedo, non costringe qualcuno a trovare una risposta convincente?

Ti è mai capitato di non credere a una risposta che ti hanno dato?

“Potrei dire i ragazzi in Corea del Nord. Non è che io non abbia creduto a loro, ma ero perplesso. Se ovunque nel mondo ascolto risposte diverse e le accetto, lì la cosa mi strideva perché era una risposta data da persone totalmente estranee e isolate dal mondo, che non hanno idea di cosa ci sia fuori. Mi hanno risposto menzionando il regime, il leader supremo, che per loro è un padre, una divinità…non è che non gli ho creduto, ma mi sono chiesto chissà cosa sarebbe la felicità per loro se sapessero cosa c’è fuori. In questo momento però è questo, e devo prenderlo come tale, anche se c’è così tanto che non conoscono.”

Ma questo non vale anche un po’ per tutti, ad esempio per le tribù che vivono in modo tradizionale isolati dal resto del mondo?

“Sì, è vero, eppure lì la mia percezione era diversa.”

Hai mai trovato una risposta bella abbastanza da convincerti a restare e a vivere quel tipo di felicità?

"Io ho un debole per le tribù e rimarrei a vivere con tutte quelle che incontro. Ultimamente mi è successo con gli Hadzabe, sarei rimasto a vivere un bel po’ con loro, anche se non so quanto avrei resistito veramente. Ma nella mia fantasia mi sarebbe piaciuto. Ho sentito un richiamo naturale, qualcosa che dice che c’è anche un piccolo atomo di me che era così. Molto è dovuto alla connessione con la natura. Non vedo il mio futuro lontano dalla natura. Ma non so quanto possa bastarmi una camminata sulle colline, ho proprio bisogno di sentirmi selvaggio, a piedi scalzi."

Secondo te la comunità che si crea attraverso i social rende felici o allontana dalla felicità?

"Penso che sia molto difficile utilizzare i social in modo corretto e cerco di combattere con questa realtà ogni giorno. Si possono però condividere dei bei messaggi di unione e di positività che magari possono sembrare banali a chi li ha già chiari, ma sono importanti per tanti ragazzi e ragazze che hanno bisogno di un pochino di luce in tutta la melma che c’è sui social. Certe volte mi rendo conto che un piccolo post o un messaggio di risposta può fare la differenza.

Poi però la felicità non può trovarsi li, bisogna cercarla fuori. Anche per questo il futuro per me è trasformare Progetto Happines in un vero media, che parli e divulghi felicità e che sia una piccola oasi in mezzo a questa confusione, un luogo dove trovare qualche secondo di contentezza e serenità.”

Cercare la felicità rende felici? Sei più felice di quando sei partito?

"Sì. Non sono sempre felice ovviamente, ma ho più strumenti e ho scoperto nuove fonti per essere felice. Mi sento fortunato, privilegiato perché so cosa c’è fuori, so come è il vero mondo, e che questa è una bolla."

Cosa è per te la felicità? © Progetto Happiness
Cosa è per te la felicità? © Progetto Happiness

Ora però te lo devo chiedere: cos’è per te la felicità?

"In realtà proprio questo continuare a cercarla. La ricerca mi porta a studiare, ad apprendere, e questo per me è la felicità. Però è qualcosa che cambia costantemente: in questo momento sono molto molto severo nel difendere tutte le piccole cose come gli affetti, la famiglia i miei amici, le piccolissime emozioni che provo ogni giorno. E mi rendo conto che sono le cose che mi rendono veramente felice. Forse prima, quando ero un po’ più acerbo e un po’ più superficiale pensavo a grandi obiettivi, grandi traguardi. Attualmente la tranquillità è il mio momento di felicità.“

Mi emoziona come Giuseppe faccia coincidere la maturità con la comprensione che la felicità non si debba necessariamente celare dietro a grandi obiettivi. Una piccola verità, ma molto potente. Credo in parte risponda già alla vera domanda che volevo fargli fin dall’inizio. È davvero importante essere felici?

“Secondo me è responsabilità di ciascuno di noi provare a cercare la felicità, ma dipende cosa si intende per “felicità”. Credo sia l’unica cosa che conta davvero, ma senza diventare un’ossessione. Deve essere una conseguenza del modo in cui hai scelto di vivere. Quasi non te ne dovresti accorgere di essere felice. Io, alla fine, ho smesso di cercare la formula perfetta, perché non esiste. Amo questa ricerca, questo continuo apprendimento".

È diverso il concetto della felicità nel mondo?

"Per quello che ho visto, è totalmente diverso in due parti del mondo: in quella che possiamo chiamare “oriente” ma in cui metto anche l’Africa e i paesi in via di sviluppo, il concetto di felicità è collettivo ed è al di fuori del soggetto: comprende la famiglia, dio, la natura. Nel mondo occidentale, invece la felicità è un concetto fortemente individuale. Prima viene il singolo, che è anche giusto. La risposta credo sta in mezzo ai due modelli. Perché da una parte l’ego è totalmente annullato, mentre dall’altra è la prima cosa che deve nutrirsi della felicità.”


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E tra il pubblico che ti segue e le persone che incontri, è un valore condiviso?

Non sempre, al punto che non tutte le persone a cui rivolgo la domanda la capiscono. Quando faccio alcune domande in contesti completamente lontani dal nostro, “felicità” certe volte non è neppure traducibile, non esiste come parola, per cui devo fare magari cinque volte la stessa domanda con sfumature diverse senza peraltro ricevere una risposta precisa. Ed è bellissimo. Succede spesso nelle tribù, dove il concetto non può neppure esistere perché il loro obiettivo è sopravvivere: devono cacciare, riempirsi la pancia, dormire, procreare, quindi la felicità è quando hai queste quattro esigenze soddisfatte. È felicità o sopravvivenza? Non lo so. Però è bello quando la risposta non combacia con la mia domanda.

Dove andrai ora?

Prossimo viaggio: New York. Non facciamo mai viaggi in grandi città ma lì il mio obiettivo è di vivere con i senzatetto. Spero riusciremo a passere almeno un giorno e una notte. Credo sarà un’esperienza molto forte.

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