I segreti delle risaie balinesi al di là delle foto da cartolina

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Un’altalena che sembra sospesa nel vuoto, un vestito rosso svolazzante, e sullo sfondo il verde brillante dei terrazzamenti delle risaie balinesi. È uno degli scatti più iconici che i turisti di tutto il mondo inseguono durante una vacanza a Bali, nelle coltivazioni di Tegallalang o Jatiluwih. E certe risaie, abbarbicate a gradoni sulle colline scoscese, sono veramente uno spettacolo per gli occhi. La natura e il lavoro millenario dell’uomo si fondono in un’armonia favolosa, restituendo lo stesso colpo d’occhio che offrono le colline coltivate a grano della Val d’Orcia, i lavandeti in Provenza o i vigneti delle Langhe.


Le risaie di Tegallalang  ©Rizky Ade Jonathan/Shutterstock
Le risaie di Tegallalang ©Rizky Ade Jonathan/Shutterstock
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Eppure, al di là dell’indiscutibile fascino della zona, si resta con l’impressione che manchi qualcosa. Le risaie più note di Bali sono senza dubbio degli scenari favolosi, ma il turista più curioso qui fatica a ritrovare un po’ di sana autenticità. Per scoprire qualcosa di più sulle risaie balinesi, bisogna allontanarsi dai siti più famosi. Bali, del resto, è letteralmente piena di risaie: si coltiva riso in tutti i villaggi, ai lati di ogni strada, perfino ai bordi del trafficatissimo centro di Ubud. Nella città più grande e popolata dell’isola degli dei, svoltando un angolo si possono percorrere cammini quasi mistici come il Sari Organik Walk immersi nella tranquillità del verde delle risaie.

È qui che, un po’ per caso, abbiamo trovato la chiave per scoprire qualche segreto sulle risaie balinesi. Tra una chiacchiera e l’altra, un ragazzo gentile figlio di contadini accetta la nostra proposta di accompagnarci a vedere da vicino il lavoro e l’organizzazione di una risaia familiare.

Nelle risaie a Mas ©mariashkin/Shutterstock
Nelle risaie a Mas ©mariashkin/Shutterstock

Il Subak, tra storia e modernità

Alle risaie di Mas si arriva dopo slalom vertiginosi in sella ad un motorino tra stradine strette tra i fossati. Basta una disattenzione e le ruote finiscono in acqua, la stessa acqua che a Bali inonda le risaie in un sistema antico di oltre mille anni: il subak.

Il subak è un modo per distribuire l’acqua, ma anche un sistema sociale e culturale che coinvolge l’intera comunità agricola. Il riso, si sa, per crescere ha bisogno di tanta acqua, che a Bali non manca, ma dai fiumi deve essere convogliata nei campi. Nei secoli allora è stato creato, ed è tuttora immutato, un fitto reticolo di canali e chiuse che consentono di allagare progressivamente le risaie. Viene sfruttata ogni minima pendenza, e se il terreno è piatto, braccia sapienti hanno scavato la terra per dar modo all’acqua di fluire e svolgere il suo lavoro. 

Ogni campo è proprietà di una famiglia diversa, ma grazie al subak l’acqua è una proprietà collettiva, perché permette la coltivazione di tutti i campi della zona. L’acqua è l’elemento che crea la comunità, una comunità che si rafforza in tanti riti quotidiani. Ogni subak ha il suo tempio, dove i contadini celebrano riti affinché gli dei garantiscano un buon raccolto. Un comitato di saggi in ogni subak decide i cicli di coltivazione, e tutti i contadini si adeguano. Le ragioni di questa armonia sono anche molto pratiche, ci spiega la nostra guida d’eccezione: se tutte le risaie sono allo stesso stadio di coltivazione, gli aironi - ghiotti dei germogli - rovinano solo una percentuale molto bassa del raccolto. Se invece un singolo contadino si azzardasse ad anticipare la semina, il suo riso verrebbe decimato dagli animali.

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Riso e lavoro

Non vediamo in giro i bufali con i piedi nell’acqua, che ci è capitato di vedere a Jatiluwih. “Quelli sono buoni per fare le foto, non per lavorare”, scherza il nostro accompagnatore. Nessuno si sognerebbe più di coltivare le risaie con gli animali: qualche anno fa le famiglie hanno investito nell’acquisto di una motozappa, modificata per poter lavorare sommersa nell’acqua delle risaie, e una sola macchina è di gran lunga più efficiente di cinque coppie di buoi.

Quelli che vediamo qui, come altrove, sono invece gli uomini e le donne chini sulle piantine, piedi nell’acqua, e grandi falde in testa a coprirsi dal sole. La terra può anche essere preparata dalle motozappe, ma poi viene lavorata dai contadini, che seminano i chicchi di riso, selezionano dopo venti giorni le piantine più robuste, le trapiantano sui terreni in una perfezione geometrica, controllano in maniera maniacale la quantità d’acqua per allagare i campi, e si spaccano la schiena per falciare le piante quando il riso è pronto, caricandosene sulle spalle enormi fasci. Generalmente, metà del raccolto è sufficiente per sfamare la famiglia in attesa del raccolto successivo, ed il restante può essere venduto.

Mentre passeggiamo sull’argine dei campi, che qua e là cede sotto il nostro peso, i contadini ci salutano stupiti. Qui i turisti non arrivano mai: è tanto vero che non si aspettano l’arrivo di nessuno che non ci sono pacchetti di riso pronti da vendere, né donne con pesi in testa che si lasciano fotografare per qualche moneta. Già che ci siamo, anzi, ci chiedono una mano per smuovere i chicchi di riso stesi al sole ad asciugare. I contadini accendono un’offerta per chiedere agli dei che non venga giù proprio ora un acquazzone improvviso a disturbare l’asciugatura. I chicchi da lasciare nei semenzai sono già stati messi da parte. Tra qualche mese diventeranno nuove piante e daranno nuovo riso, in un ciclo che si perpetua da secoli, lontano dagli occhi distratti dei turisti in cerca di un sensazionale scatto da postare.

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