5 dure lezioni che ho imparato vivendo all’estero

7 minuti di lettura

Come molte cose nella vita, l’esperienza di un expat appare sui social media attraverso un filtro fuorviante. Da Twitter o Instagram, vivere all’estero si presenta come una fonte di ispirazione, un’avventura traboccante di opportunità; ma i lati negativi vengono di solito tagliati fuori dalla cornice. Trasferirsi in un altro paese è senza dubbio un privilegio ma la realtà non è sempre così facile.

Anita Isalska adesso vive a San Francisco ©RICOWde/Getty Images
Anita Isalska adesso vive a San Francisco ©RICOWde/Getty Images
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Ho sperimentato questi alti e bassi quando nel 2017 ho lasciato il Regno Unito per vivere prima in Australia e poi negli Stati Uniti. Ho incontrato persone straordinarie e mi sono capitate opportunità preziose; ma trasferirsi all’estero richiede riserve inesauribili di ottimismo e resilienza. La mia pazienza è stata messa alla prova dalle trafile per il visto e il passaporto, i miei bagagli sono stati abbandonati su un container disperso. C’è la solitudine, ci sono i pianti durante le chiamate su Skype. Ci sono le discussioni frustranti con le varie agenzie fiscali e se vostra madre è come la mia, farà sempre confusione con il fuso orario. Benvenuti a bordo di queste montagne russe emotive chiamate vita all’estero.

Gestire le scartoffie diventa uno sport

Non avrei mai immaginato che avrei inviato le mie conversazioni di WhatsApp all’ufficio immigrazione australiano. Ma la via che ti porta in terra straniera è lastricata di scartoffie e ti riserva svolte inusuali.

Nel 2016, io e il mio compagno Matt abbiamo deciso di lasciare il Regno Unito per trasferirci a Melbourne. Lui è nato in Australia quindi il percorso più facile per me era richiedere un visto da partner de facto di un cittadino australiano. Sembrava semplice ma, come ogni expat sa, le application finiscono per riempirti la scrivania di scartoffie. Per non parlare poi dei moduli online, che vanno compilati entro un tempo limitato, che finisce sempre prima che tu possa premere “invio”.

Il visto richiedeva una prova dell’autenticità della nostra relazione e i requisiti erano specifici. Abbiamo fatto degli screenshot alle nostre conversazioni per messaggio (prova che avevamo mantenuto il contatto durante i periodi passati a distanza) e abbiamo raccolto le cartoline stupide inviate dai nostri amici (prove di residenza allo stesso indirizzo). Abbiamo scattato dei selfie di gruppo come prova di una cerchia di amici comune. Avevamo bisogno anche di persone che garantissero per noi nero su bianco. “Sono stato testimone di effusioni tra Anita e Matt in molte occasioni”, recitava la dichiarazione scritta per noi da un amico.

Abbiamo dovuto aspettare quasi un anno per ottenere un visto, tempo sufficiente per far insinuare i dubbi: vogliamo davvero fare questo passo? Ma alla fine, grazie anche ad alcune e-mail imploranti, il visto è stato confermato. Non era stato romantico, non era stato spontaneo, ma potevamo partire.

Anita Isalska ha impiegato più di un anno per ottenere un visto da coppia di fatto ©Matteo Colombo/Getty Images
Anita Isalska ha impiegato più di un anno per ottenere un visto da coppia di fatto ©Matteo Colombo/Getty Images
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Il jet lag colpisce fisicamente e mentalmente

Dopo essere atterrata nella mia città di adozione, Melbourne, non ero sorpresa dall’essere insonne, debole e affamata nei momenti inappropriati. Ma non ero pronta ai sintomi emotivi legati al jet leg.

Praticamente ogni expat mantiene un legame mentale con il fuso orario di casa propria e anche a me è successo lo stesso. Ad un certo punto durante la serata, i miei amici e la mia famiglia dall’altra parte del mondo si svegliavano e il mio telefono si illuminava per le notifiche. Il mio cervello si accendeva dalla gioia del contatto e notte dopo notte cominciai a soffrire d’insonnia. Rimanevo sveglia fino a tardi per chattare sui social media, scambiare aggiornamenti e foto. Durante il giorno invece il mio telefono restava silenzioso; a parte chi era espatriato con me, il resto delle persone a cui tenevo dormiva.

Per riuscire a stabilirsi in un posto nuovo è necessario tagliare il cordone ombelicale che ti lega a casa. Ho mantenuto il contatto con i miei amici inglesi ma ho imparato a spegnere il telefono. Con gli occhi meno assonnati, ho investito le mie energie nel conoscere nuove persone in Australia. Lentamente, gradualmente, il mio telefono ha cominciato a squillare anche di giorno.

Quando un expat torna a casa scopre spesso che i loro posti preferiti sono stati chiusi © August_0802 / Shutterstock
Quando un expat torna a casa scopre spesso che i loro posti preferiti sono stati chiusi © August_0802 / Shutterstock

Le differenze culturali ricalibrano il cervello

Trasferirsi in un paese di cui non parli la lingua è un po’ un salto nel vuoto. Ma anche senza barriere linguistiche, comunicare può essere difficile.

Chi migra tra paesi anglofoni non ha vere difficoltà di comprensione ma incappa nelle sfumature di significato. Il mio slang inglese veniva accolto da sguardi confusi mentre i miei sforzi nell’imparare il gergo australiano provocavano solo risatine. Certe scurrilità escono dalla bocca degli australiani con una facilità che farebbe cadere il monocolo ad ogni autentico British.

Trasferirsi all’estero è anche un corso accelerato su come il tuo paese d’origine viene visto dal resto del mondo. Per alcuni australiani, la mia patria era Londra, Manchester United o The Queen. La gente parlava del Regno Unito in modo tenero, ma anche un po’ sprezzante, come di parla di una vecchia zia adorabilmente eccentrica: una nazione con un fascino e una storia, ma che rimane una foto in bianco e nero, un’isola piccola e un po’ sfiorita. Vedere il mio paese da una certa distanza, attraverso gli occhi degli altri, ha ampliato la mia prospettiva e mi ha fornito tanti spunti di riflessione.

Nel frattempo, avevo molto da imparare sull’Australia. Ho osservato le proteste contro i cambiamenti climatici e i cortei per rivendicare i diritti degli aborigeni, arrivando a comprendere meglio le battaglie sociali e politiche del paese. Fuori dalle città, gli australiani esprimevano interi concetti con un’alzata di spalle. Quando mi sono imbattuta in un escursionista nel Nuovo Galles del Sud, gli ho chiesto se si rendesse conto di quanto sono pericolosi quei lunghi serpenti marroni. La mia domanda piena d’ansia ha ricevuto una risposta piena della tipica tranquillità australiana: “eh sì, meglio non farsi mordere da quelli.”

Le opportunità di mettere alla prova quanto avevo appreso sui serpenti locali sono durate poco. Dopo meno di due anni a Melbourne, è capitata un’occasione per trasferirsi di nuovo, stavolta a San Francisco. Io e il mio compagno ci siamo detti, ci siamo già trasferiti dall’altra parte del mondo una volta, perché non farlo di nuovo? Essendo la seconda volta, l’avremmo gestita da esperti.

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I bar di Centre Place Street, Melbourne © TK Kurikawa / Shutterstock
I bar di Centre Place Street, Melbourne © TK Kurikawa / Shutterstock

La parola “casa” assume un significato nuovo

Chiedete ad un expat dove si trovi la sua casa, riceverete un resoconto biografico completo o uno sguardo commosso e perso nel vuoto. Per le prime settimane, il luogo che hai appena lasciato sa ancora di casa. Ripensare alla vecchia vita è confortante, come ricordare le abitudini, i volti degli amici, gli aneddoti e quelle strade che potresti percorrere con il pilota automatico.

A mano a mano, si innestano delle abitudini che trasformano la nuova città in “casa”. Ma mentre all’estero sei impegnato a ritagliarti una nuova vita, scoprendo dei posti in cui farai ritorno un giorno o incontrando amici che diventano presto indispensabili, anche la città da cui provieni cambia. Le persone che hai lasciato a casa cambiano; vanno a vivere altrove, si sposano, divorziano. Nasce un bambino e un familiare si ammala.

Quando ho fatto di nuovo visita al quartiere in cui abitavo a Londra, mi sono sentita come uno di quei brontoloni che rimpiangono i vecchi tempi: il mio bar preferito aveva chiuso, e cos’è questa moda dei negozi di sigarette elettroniche? Quando torno in Regno Unito vivo la gioia di ritrovarsi e riscoprirsi; ma le mie visite mi trasmettono anche un senso di perdita. I miei posti preferiti non mi appartengono più. I matrimoni e i funerali che mi sono persa lasciano dentro un vuoto. Mentre cammino per le strade non più familiari, riemergono i ricordi di ciò che sono stata e mi chiedo: chi sono adesso?

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La vita all’estero ha un prezzo

Adesso vivo a San Francisco la mia seconda vita da expat. In questa città altezzosa come un pavone, le strade in salita sono fiancheggiate da case colorate, le cosiddette “Painted Ladies”. Amanti del picnic e strimpellatori di chitarra affollano i parchi. Nei bar storici si raccontano ancora aneddoti dei tempi in cui in California vigeva il proibizionismo. Quando vado in bici lungo la baia, passando dagli edifici del porto e il maestoso Bay Bridge, mi illudo di vivere in un posto bellissimo.

Ma San Francisco è anche una realtà complessa e profondamente divisa. Con la grave crisi degli alloggi si contano più di 9000 senzatetto. La quantità di persone che arrivano attratte dalle opportunità offerte, americani come stranieri, continua a far alzare i prezzi degli affitti e il costo della vita. L’expat vive all’interno di una bolla: assorbe i lati positivi e le opportunità, per poi cambiare rotta una volta fatto il pieno. Ciò che è difficile ed enormemente più importante, è capire se questo stile di vita costituisce una forza costruttiva o distruttiva. Invece di focalizzarmi su ciò che posso trarre dalla mia esperienza a San Francisco, adesso penso: se la città e i suoi abitanti sono i miei generosi ospiti, cosa posso fare io per essergli riconoscente?

La vita all’estero può durare per sempre come avere una data di scadenza fissata, ma è dovere di ogni straniero collaborare allo sviluppo della città. Va bene bere, mangiare in giro o instagrammare il tramonto, ma anche ascoltare attentamente, fare volontariato e partecipare alle iniziative della comunità. Forse è stato nel momento in cui l’ho capito che ho cominciato a percepire San Francisco come casa mia.

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