Stone Town, perla meticcia

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Se della Zanzibar delle spiagge infinite e delle barriere coralline c’è poco da capire - basta accondiscendere alla bellezza - per entrare in sintonia con la sua capitale, Stone Town, sull'isola di Unguja, la più grande dell’arcipelago, occorre essere accorti e scegliere con cura tempi e modi.

Un uomo guarda il mare al porto di Stone Town
Il porto di Stone Town, sull'isola di Unguja ©Zik Teo/Lonely Planet
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Si può provare, ad esempio, ad andare sul lungomare di fronte all’Old Fort, nei giardini di Forodhani, dove al tramonto i ragazzi si tuffano come pazzi in un mare che balugina le sue ultime luci. Prendono una rincorsa che arriva fino alle siepi del parco e si lanciano sui cornicioni della battigia. 

Tuffi  sul lungomare di fronte all’Old Fort © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
Tuffi sul lungomare di fronte all’Old Fort © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia

Poco più in là le bancarelle di pesce alla brace, frittelle di verdura e carne (samosa), banane, cocchi e manghi espongono la loro effimera mercanzia, i taxisti alla ricerca di clienti si agitano come zanzare affamate e l’urlo distorto del muezzin proclama la sosta della preghiera. È tutto imbalsamato da decenni, forse da secoli in questo pezzo d’Africa. La città vecchia della capitale zanzibarina, invece, ha vie troppo strette e dismesse per concedersi al traffico. L’intrico dei suoi vicoli è un dedalo di affascinanti case in sfacelo e meravigliosi palazzi in rovina, con il groviglio dei fili elettrici a cielo aperto a far da cornice confusa, precaria come in un addobbo schizofrenico e balucinante. Sono le vestigia di un passato che deve le sue stimmate a una lunga lista di colonizzatori: persiani, portoghesi, arabi, inglesi, tedeschi. Zanzibar è sempre stata un centro strategico: porta d’Africa (la costa della Tanzania è separata da una striscia d’acqua di poche decine di chilometri) e avamposto sull’Oceano Indiano. Troppo succulenta, fertile e nevralgica per non prestare il fianco a traffici d’ogni tipo, in primis quello degli schiavi. 

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Un angolo della Medina © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
Un angolo della Medina © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia

Taarab e altre spezie sonore

Anche l’Old Fort (Ngome kongwe in swahili), il vecchio forte arabo costruito nel XVII secolo dagli arabi del sultanato di Oman per difendere la città dagli attacchi delle navi europee, sta ancora lì a cementare questi retaggi, ma da tre lustri a questa parte ha trovato anche un’altra funzionalità, non meno significativa. È nel vasto catino di questa fortezza che si celebra, infatti, ogni anno a metà febbraio il Sauti Za Busara (“la via della saggezza” in lingua swahili), il più importante festival musicale dell’intera “east coast” africana. Quattro giorni di concerti: un banchetto speziato che nell’edizione 2020 ha scampato per un pelo l’emergenza corona virus e sublimato la propria inclinazione di vetrina delle culture musicali africane, con musicisti da Mali, Marocco, Kenya, Senegal, Ghana, Sud Africa, Nigeria, Uganda e, naturalmente, Tanzania e Zanzibar. 

Concerto all'Old Fort durante il Sauti Za Busara Festiva © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
Concerto all'Old Fort durante il Sauti Za Busara Festiva © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
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L’Oceano indiano è un bacino pieno di suggestioni e le sue musiche lo rappresentano con accenti credibili e frastagliati. Grande spazio innanzitutto per la musica Taarab, fiore all’occhiello del patrimonio sonoro locale e stile policromo. Nato nella costa dell’Africa Orientale, perfezionatosi in questo arcipelago e caratterizzato da suoni che ricordano il mondo arabo. Culture Musical Club è un pò la nazionale di questo stile, un ensemble che dal 1958 promuove e diffonde la versione più tradizionale di questo genere fatto per ballare e raccontare la vita. C’è poi lo zenji flava, la variante zanzibarina dell'hip hop e ci sono “alberi di canto” della musica di Zanzibar come Siti Binti Saad e come Bi Kidude.

La casa natale di Freddie Mercury © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
La casa natale di Freddie Mercury © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia

La casa natale di Freddie Mercury

A due passi dall’Hot Spot Bistro, scivolando da Kenyatta Road alla parallela (e più vicina al mare) Shangani Street, c’è anche la casa museo di Farrokh Bulsara. Il nome non vi dirà molto, almeno fino a che non verrà associato al suo celeberrimo nome d’arte: Freddie Mercury. Mercury è nato a Stone Town il 5 settembre 1946, ma emigrato in India dopo pochi anni. Dopo essere tornato a Zanzibar nel 1963, con l’esplosione della rivoluzione che portò al rovesciamento del governo appena eletto, il cantante e la sua famiglia sono fuggiti a Londra, dove poi Mercury ha fondato i Queen. Il museo, situato al piano terra della casa dove Freddie Mercury visse i suoi primi anni di vita, ricostruisce le radici zoroastriane del cantante, certifica la frequentazione della scuola a Panchgani, in India, e raccoglie vari cimeli, tra cui il suo certificato di nascita, una mostra fotografica, testimonianze degli amici più stretti del cantante e dediche di vari personaggi. 

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Il Palace Museum, un grande edificio a tre piani, circondato da mura merlate © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
Il Palace Museum, un grande edificio a tre piani, circondato da mura merlate © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia

Il Palazzo delle meraviglie e altre vestigia del passato

Shangani Street disegna una curva sul lungomare e dopo Kelele Square diventa praticamente Mizingani Road dove, insieme all’Old Fort, in una sorta di sfilata immobile, si scoprono alcuni dei più bei palazzi di Stone Town. Il primo è il Palazzo delle Meraviglie (Palace of Wonders) edificato nel 1883 e ristrutturato dopo il bombardamento navale del 1896, fu usato come residenza dei sultani, come sede del governo coloniale, e come sede del partito di governo dopo la rivoluzione. Deve il suo nome al fatto che fu il primo edificio di Zanzibar ad avere la corrente elettrica e il primo dotato di ascensore in tutta l'Africa orientale. Nel 2000 è stato inaugurato al suo interno un museo che espone un insieme eterogeneo di reperti sulla cultura swahili e zanzibarina, tra cui una grande imbarcazione tradizionale, ricostruita nel salone principale.

Il Vecchio Dispensario, oggi sede del Centro Culturale © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
Il Vecchio Dispensario, oggi sede del Centro Culturale © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
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Poi tocca al Palace Museum, un grande edificio a tre piani, circondato da mura merlate; fu costruito alla fine del XIX secolo per ospitare la famiglia reale e dopo la rivoluzione del 1964 venne adibito a edificio governativo. Nel 1994 cambiò nuovamente nome ed uso, diventando un museo sulla famiglia reale zanzibarina. Così oggi un piano è dedicato al sultano Khalifa Bin Haroub e alle sue due mogli mentre in una stanza sono conservati gli oggetti, i vestiti e i mobili preferiti della principessa Salme, figlia del sultano Said. Pochi passi ancora, il tempo di dare uno sguardo al Big Tree (un gigantesco baobab plurisecolare), e si arriva al Vecchio Dispensario o Dispensario Ithnashiri, oggi sede del Centro Culturale. É un edificio costruito fra il 1887 e il 1894 per volere di Tharia Topan, un ricco mercante indiano ismailita. Originariamente era un ospedale per i poveri e resta uno dei palazzi meglio decorati di Stone Town, con balconi intagliati, stucchi e mosaici alle finestre. Ospita un piccolo museo sulla storia di Zanzibar, con foto d'epoca del lungomare. 

Una donna a spasso nella Medina © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
Una donna a spasso nella Medina © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia

L’ebbrezza della città vecchia

Un altro bel modo per decifrare la capitale zanzibarina è semplicemente quello di perdercisi. Perdersi nella medina è facile, ma mai inquietante, perché la sua mappatura non è poi così vasta e c’è sempre il mare come riferimento. Annusare i negozietti, alcuni dei quali davvero male in arnese, ma sempre ricchi di profumi e fascino; provare ad attaccare discorso (magari a gesti) con i vecchietti musulmani che parlano "swahili" e portano l'abito tradizionale, il kanzu; intercettare le donne, quasi tutte col velo, che portano sul capo ceste varie e brocche d'ottone; salutare le bambine nell’elegante divisa della scuola o semplicemente raccogliere un catalogo fotografico delle porte della città vecchia.

La meraviglia di questa città dichiarata patrimonio dell'umanità e tutelata dalla Fondazione Karim Agha Khan come memoria culturale dei musulmani ismaeliti è infatti soprattutto costituita dagli antichi portoni di legno intagliato, circa cinquecento (sia portoni in stile indiano, con la volta arrotondata, sia quelli con architrave retta, che invece riflettono lo stile omanita). Sono queste le vie d’accesso privilegiate ai vecchi palazzi, di solito disposti su tre piani, con bellissimi cortili interni e con un immancabile elemento architettonico (che rivela anche un forte imprinting legato alla condivisione comunitaria degli spazi): la baraza, una tradizionale panca in muratura che si trova al lato dell'ingresso di quasi tutte le case arabe o swahili. 

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Gli antichi Bagni Persiani © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
Gli antichi Bagni Persiani © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia

Nel deambulare disordinato di questa passeggiata nel cuore della città non è difficile arrivare a un’altra delle sue perle architettoniche: gli antichi Bagni Persiani, costruiti alla fine del XIX secolo da architetti shirazi, per volere del sultano Barghash Bin Said, oggi piombati nel silenzio dell'abbandono, ma in discreto stato di conservazione. Se il labirinto di viuzze della medina non vi è bastato potete provare a sbucare dalle parti della chiesa anglicana, più precisamente in Darajani Street, dove vi attende un altro stipato ritrovo di autoctoni, nonché uno dei mercati più root dell’intera africa orientale. E il Darajani Market con i suoi stand sbrindellati e le sue merci (carne, pesce, frutta, spezie) che, con le loro chiare origini indie, africane e arabe, confermano il DNA meticcio di questo arcipelago.

Il monumento per ricordare il passato legato alla tratta degli schiavi © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
Il monumento per ricordare il passato legato alla tratta degli schiavi © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
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La tratta e le sue memorie

Nei secoli scorsi i più ricchi e potenti mercanti di schiavi zanzibari, disponevano di veri e propri eserciti e controllavano militarmente buona parte dell'entroterra, dalla Tanzania allo Zambia, dall'Uganda al Congo. In pieno centro, nei pressi del mare, lungo la cosiddetta "Via dei Suicidi", in un vicolo tra Kenyatta e Shangani Street, è situata la casa di Tippu Tip, uno spietato trafficante di schiavi. È un edificio elegante con una bellissima porta d’ingresso e una botola nei pressi del varco d’accesso che, tramite un cunicolo sotterraneo, metteva direttamente in comunicazione la casa del negriero, dove venivano poi smistati gli schiavi, con un attracco vicino alla spiaggia. Tutt’ora, in teoria, vi si potrebbe sbucare per vedere arrivare i dhow (le caratteristiche barche locali a vela) o le grandi navi commerciali che puntano il porto poco distante. Tip è stato sepolto non distante dalla sua abitazione in una tomba araba, tuttora visibile, piazzata in un giardino oramai trascurato.

Un Dhow e una nave commerciale nei pressi del porto di Stone Town© Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
Un Dhow e una nave commerciale nei pressi del porto di Stone Town© Valerio Corzani / Lonely Planet Italia

La vendita degli schiavi a Stone Town aveva luogo nel quartiere di Mkunazini e nel punto esatto dove sorgeva il palo della fustigazione è stato eretto un altare, nel 1873, a ricordo del sacrificio di migliaia di africani vittime di questo commercio disumano. Dove ora sorge la chiesa anglicana, è possibile visitare le celle in cui gli schiavi venivano rinchiusi prima di essere venduti all'asta, mentre accanto alla chiesa c'è un monumento che ricorda il dramma della tratta, con una serie di sculture in ferro che rappresentano schiavi incatenati in fondo a una fossa. Un monumento che è anche un monito. Serve a ricordare a tanti turisti distratti che questo posto non è stato solo l’eden vacanziero che è diventato oggi e che ogni paradiso ha avuto anche il suo indicibile inferno.

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