San Basilio de Palenque: viaggio alle radici africane della Colombia

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Il turista che passeggia per il centro di Cartagena de Indias conosce bene le palenqueras, queste donne nere dagli abiti sgargianti che sembrano usciti più che da una sartoria, da un mariposario. Vendono frutta ai turisti accaldati e si lasciano fotografare davanti alle loro macedonie tropicali in posa, come figuranti consumate. Quello che i turisti ignorano spesso, é il pueblo dal quale provengono – San Basilio de Palenque – un’enclave d’Africa in terra di Colombia, un luogo per certi aspetti magico, patrimonio dell’Unesco, in cui si parla una lingua unica che mescola lingue romanze come il portoghese e il castigliano a lingue bantu’ come il kikongo e il kimbundu. 

San Basilio de Palenque Colombia
Una palenquera a Cartagena, Colombia ©Carl Forbes/Shutterstock
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Il percorso da Cartagena a San Basilio de Palenque è un percorso fatto prima di periferia industriale, poi di lunghe piane coltivate e di un ponte che attraversa il Rio Magdalena, infine di selva, anche se non troppo fitta. Un paio d’ore abbondanti lungo la strada, la statale 90, che tocca prima il comprensorio di Turbaco, sfiora la cittadina di Arjona, si immette sulla statale 25 in direzione San Jacinto, ma dopo pochi chilometri prende la provinciale denominata Malagana (dove si trova anche l’Hotel San Basilio de Palenque, una delle non numerose opportunità di sistemazione notturna) e subito dopo un percorso sterrato che ti porta direttamente a San Basilio.  

Il centro di Cartagena de Indias, Colombia ©Jess Kraft/Shutterstock
Il centro di Cartagena de Indias, Colombia ©Jess Kraft/Shutterstock
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Noi siamo arrivati a San Basilio de Palenque quando il sole era ancora alto. Case basse, qualche lamiera a coordinarsi con la calce, molti murales che inneggiano alla storia di questo luogo, la foresta che entra nel villaggio e viceversa. Il paese era in festa: la piazzetta dominata dalla statua di Biohò, un guerriero cimarrones il cui profilo nel busto ricavato da una colata di ferro ricorda vagamente L’urlo di Munch, era decorata con striscioni colorati. La gente del posto, tutti discendenti dei fieri Cimarrones, sembrava indifferente all’arrivo di uno sparuto gruppo di viaggiatori e attendeva in surplace la sera con i suoi momenti conviviali e il suo relax. 

La statua di Biohò, un guerriero cimarrones, a San Basilio de Palenque, Colombia © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
La statua di Biohò, un guerriero cimarrones, a San Basilio de Palenque, Colombia © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia

Una storia di schiavi e di fughe

Gli schiavi africani furono introdotti nella Nuova Granada (oggi Colombia) con l’arrivo dei primi conquistatori e coloni europei. La schiavitù fu per la prima volta legalizzata dalla corona spagnola nel 1510. Il principale porto di arrivo degli schiavi era quello di Cartagena de las Indias e gli africani provenivano da diversi gruppi etnici e linguistici dell’attuale Congo e Angola. Durante il periodo coloniale le navi negriere che arrivavano nel porto di Cartagena de las Indias, trasportarono migliaia e migliaia di persone provenienti dall’Africa. 

Rotti i legami con la propria terra, costretti alla mescolanza etnica dai padroni per evitare l’insorgere di legami solidali, gli schiavi seppero tuttavia ben presto organizzare fughe e sollevamenti. In Colombia gli schiavi rivoltosi presero il nome di Cimarrones e i loro insediamenti furono chiamati Palenques. 

Il termine cimarrón (aggettivo e sostantivo) indicava in origine gli animali, come il maiale o il cane, che da domestici ridiventano selvatici; lo stesso termine viene usato la prima volta nella Real Cédula dell’11 marzo 1531 per definire gli schiavi indios ribelli in fuga dalle piantagioni delle colonie spagnole d’America. I Palenques erano costituiti da schiavi che fuggivano dalle Reales Minas, dai servizi domestici o direttamente dalla navi negriere, fondando villaggi circondati da piccole fortezze per difendersi dagli attacchi dei soldati bianchi. I Palenques furono quindi la realizzazione di un progetto di libertà. Repubbliche indipendenti autoproclamate, che possedevano propria autorità e organizzazione e che lavoravano per la conservazione e la ricreazione di lingua, religione, musica, balli.

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San Basilio de Palenque, Colombia © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
San Basilio de Palenque, Colombia © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia

Kid Pambelé, Batata, Petrona Martinez e altre star

San Basilio de Palenque è un pueblo che andrebbe studiato a fondo, con approccio quasi scientifico, perché c’è qualcosa di prodigioso, forse un microclima, che favorisce un’identità speciale e il proliferare delle vocazioni artistiche. Sennò come spiegare che in un villaggio di appena 421 case e 3500 abitanti sia nato il più grande pugile colombiano del ventesimo secolo, Antonio Cervantes, alias Kid Pambelé, una leggenda delle percussioni e della musica afrocolombiana come Paulino Salgado, alias Batata, una cantante di fama mondiale come Petrona Martinez, due volte candidata al Grammy Award e indiscussa regina del bullerengue e persino il coprotagonista di ‘Queimada’, l’attore Evaristo Marquez, un mungitore di vacche che dalla sera alla mattina si ritrovò a recitare al fianco di Marlon Brando: tutti discendenti dei Cimarrones.

Non a caso questo piccolo villaggio è stato dichiarato dall’Unesco Opera maestra del patrimonio orale e immateriale dell’umanità, essendo l’unico Palenque che ancora sopravvive a quattro secoli dalla sua fondazione da parte degli schiavi africani che si ribellarono contro gli spagnoli. Oggi, per fortuna, dopo secoli in cui l’idioma era stato discriminato, anche la lingua palenquera è tornata egemone nelle scuole e i ragazzi la studiano insieme alle imprese del percussionista Batata e del pugile Pambelé. C’è anche uno spazio, La Casa de la Cultura, nel centro del paese, che funge da museo e laboratorio identitario e organizza corsi di cucina, lingua, cucito, mestieri rurali.

Le pettinature sono una cosa importante a San Basilio de Palenque, Colombia © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
Le pettinature sono una cosa importante a San Basilio de Palenque, Colombia © Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
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Pettinature e musiche: due modi di perpetuare la cultura

La prima impressione che il viaggiatore ha entrando a Palenque e di trovarsi nel solito pueblo colombiano. Strade polverose e sconnesse, rete fognaria inesistente, vecchie case di fango e sterco coi tetti di palma o di lamiera, pochissimi negozi in cui quasi tutto si esaurisce nelle prime ore del mattino, maiali, maialini e palme di mango ovunque. L’elettricità che stantuffa a fatica e che arrivò negli anni settanta grazie ai pugni di Pambelé, di cui l'allora presidente Misael Eduardo Pastrana Borrero era un tifoso incallito.

San Basilio de Palenque è stato il primo pueblo libero d’America grazie a un decreto reale del Re di Spagna emesso nel 1716 e al carisma di guerrieri come Nicolas de Santa rosa, Domingo Criollo e Benkos Biohò, un principe della Guinea Bissau, un altro che diede parecchio filo da torcere agli spagnoli, guidando altri schiavi ribelli a riappropriarsi della loro libertà. Con una storia così, il palenquero non poteva che essere ‘condannato’ a differenziarsi da tutti gli altri afrocolombiani. Anche il nero della sua pelle è un’altra storia: i neri colombiani hanno la pelle color cioccolata, il palenquero è nero come l’antracite, sposa la donna che è stata sua compagna di giochi fin dalla prima infanzia, è fiero delle sue radici e quando muore qualcuno della comunità lo si veglia nove notti, tra lacrime, balli, canti e banchetti.

È anche molto attento a come sistema i capelli e non si tratta solo di un vezzo: a San Basilio sono stati catalogati più di 60 tipi di pettinature tradizionali che ricreano paesaggi circostanti o attrezzi da portare in caso di fuga, stato del terreno ed eventi significativi (la testimonianza di questa “attenzione” è certificata anche da molti murales che da queste parti sostituiscono i neon pubblicitari). 

C’è poi la musica che ha una connotazione afro così spiccata che è stata definita afro-colombiana ed ha intriso di sé tutte le strutture ritmiche più ataviche delle varie tradizioni etniche del nord est atlantico. Cosicché - in una sorta di continua replica del processo creativo e di simulazione delle tattiche dei primi cimarrones che rielaboravano le musiche ascoltate dì nascosto nelle case degli ex-padroni, dando origine a generi minori - anche le musiche “tribali” dei palenque sono diventate il canovaccio di mille altri generi che hanno poi fruttato anche contaminazioni con il pop, con il funk, con altre musiche latine (esemplare, da questo punto di vista, il palinsesto della compilation uscita nel 2011 per la Soundway: Palenque Palenque: Champeta Criolala & Afro Roots in Collombia 1975-1991).

La festa di San Basilio de Palenque© Valerio Corzani / Lonely Planet Italia
La festa di San Basilio de Palenque© Valerio Corzani / Lonely Planet Italia

Un fertile bailamme

Mano a mano che arrivava la notte, San Basilio si accendeva. La musica degli altoparlanti sulla piazza si mescolava con mille altri suoni e rumori. Una fiera di paese con un soundtrack sbalestrato. Le corde del tiple colombiano (una chitarra a dodici corde) sovrapposte al triturarsi del ghiaccio nelle macchine artigianali per il gelato, poliritmi di tamburi affiancati al reggaeton che arrivava dalle suonerie dei cellulari, applausi degli astanti rivolti ai musicisti per strada e grida dei bimbi e degli ubriachi rivolti a tutti e a nessuno: un bailamme insomma, divertente e spettacolare. La selva assisteva attonita a tutto questo, così come ha assistito, secoli addietro, alle fughe e alle lotte dei cimarrones.

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Valerio Corzani è presentatore e autore radiofonico, critico musicale, musicista, fotografo, reporter, globetrotter. Collabora con Radio Rai dal 1986; suona il basso dal 1976; scrive, fotografa e parla di suggestioni che incontra nei suoi viaggi. Adora i colpi di scena, soprattutto quelli che hanno a che fare con le latitudini e i fusi orari...

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