Brivido in fondo alla valle: il carnevale della Lötschental
Camminare nella Lötschental, in Svizzera, dopo il tramonto non è sicuro. Quando il sole cala dietro le montagne sopra la valle, stendendo un manto rosa sulle cime frastagliate in un’ultima sfida contro la notte, è meglio affrettarsi dentro, chiudere la porta e nascondersi sotto al copriletto. Gli Tschäggä stanno arrivando, il suono delle campane li annuncia: un costante dong dong dong si diffonde per le strette strade, mettendo in allarme mucche e pecore tenute nelle stalle durante l’inverno. Se sentite lo scampanio è già troppo tardi, gli Tschäggä vi stanno cercando. Sono alti tre metri, con volti orribilmente sfigurati. Vi spingono a terra, vi infilano le mani ruvide in bocca e vi strofinano il ghiaccio in faccia. Poi se ne vanno e vi ritrovate di nuovo soli nel buio.
Vi alzate, scrollate via la neve dai vestiti e tirate un sospiro di sollievo. Ma ecco di nuovo il fragore delle campane che si avvicinano e non avete ancora trovato un posto dove nascondervi.
Pare improbabile che nella Lötschental si tenga una festa con l’obiettivo principale di spaventare i passanti occasionali. I quattro villaggi lungo la valle in cima alle Alpi svizzere sembrano spuntati fuori da una cartolina particolarmente sentimentale. Da novembre a maggio il grappolo di casette di legno viene sepolto da metri di neve, le stalattiti come spade si allungano giù dai tetti, le tende a quadretti coprono le finestre. Gli edifici espongono allegre massime – “Dio è sempre con te se ti prendi cura della tua casa” – scolpite nel legno molto tempo fa da orgogliosi padroni di casa così abbronzati dal sole da ricordare il colore della carne in salsa gravy. Eppure è qui che qualche secolo fa la tradizione di Tschäggättä e dei suoi mostri Tschäggä è nata e continua a essere celebrata con uno zelo che rasenta l’ossessione. Ogni sera, tra la Candelora e Martedì Grasso, figure tenebrose vestite con maschere di legno e pelli di animali scendono in strada, pronte a scatenare il caos.
“Nessuno sa veramente quando sia iniziato o perché”, afferma Agnes Rieder, mostrandomi il museo dedicato a Tschäggättä che gestisce con la famiglia. “Un’ipotesi è che la gente che vive dall’altra parte della valle, una zona buia, venisse qui dove c’è il sole mascherata per rubare il cibo”.
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Mentre l’aria fredda dell’inverno si insinua attraverso i muri di pietra mi conduce attraverso stanze dedicate alle diverse parti del costume di Tschäggä: bretelle un tempo utilizzate per reggere i pali di legno che davano a questi esseri bestiali la loro stazza, scialli di pelle (di capra, pecora, mucca, persino di San Bernardo), cinture di cuoio ricamate con pesanti campanacci di ferro appesi, lunghi pantaloni di tela di sacco. E poi ci sono le maschere, ben quattrocento, accatastate negli angoli, affioranti dalle pareti, minacciose dai banchi di lavoro, ognuna con i segni idiosincratici del proprio creatore, tutte ugualmente e unicamente inquietanti. La più antica collezione dei Rieders risale al 1892, anche se si ritiene che la tradizione sia iniziata molto prima di allora. “Non è rimasto nulla di più vecchio”, sostiene Ruth. “La gente era povera qui, faceva freddo, così dopo venivano bruciate”.
La famiglia Rieder è stata più attenta delle altre a mantenere viva Tschäggättä nella valle. Sua suocera Agnes è stata la prima donna a scolpire le maschere nella Lötschental e suo marito Heinrich è oggi il più celebre intagliatore, noto per le sue creazioni fantastiche e macabre. Ha già terminato la maschera per un partecipante al clou della festa che si svolgerà tra pochi giorni: la sfilata diurna dei mostri, in cui vengono assegnati premi per i migliori. Agnes non svela nulla dei loro piani. “Nessuno deve sapere chi è lo Tschäggä”, spiega mentre lasciamo il museo. “Solo le famiglie sapranno quali sono i costumi e chi li indossa. L’unica cosa certa è che se ne vedrete uno avrete paura”.
Una nuvola gigantesca sovrasta il villaggio di Kippel, una postina fa le consegne a piedi su un sentiero scavato nella neve. Si ferma a chiacchierare con un dog-sitter che porta un cesto di ciocchi, a fianco a lui il Jack Russell impaziente di muoversi. Entro in una fila di capannoni e fienili, l’aria condita dall’odore di letame. Al vociare dei polli e ai belati delle pecore si unisce un altro suono: il battere dello scalpello sul legno. Albert Ebener è all'opera nel suo laboratorio. Chino su un pezzo di Arvenholz (pino svizzero) che tiene fermo in una morsa, taglia abilmente una fila di denti che emergono da una maschera. Trucioli gli schizzano intorno, con quella faccia nodosa sembra egli stesso scolpito. Il legno lo ha lavorato per buona parte dei suoi settant’anni. “Mio nonno intagliava maschere”, dice aspirando da una pipa che raramente lascia la sua bocca. “In questa valle se il nonno intagliava il padre intaglia e anche il figlio intaglierà”. Tra scatole di viti, corna di cervo e scaffali colmi di trapani e pialle ci sono maschere realizzate da suo padre, dallo zio e dal nonno: oggetti spaventosi con le bocche piene di strani denti di mucca che ululano permanentemente sotto i baffi di pelliccia di coniglio. Ne provo una e mi sorprende quanto sia pesante. La testa viene schiacciata dal peso, il campo visivo si restringe ai due piccoli fori per gli occhi. Le maschere sono oggi più piccole e leggere, influenzate sia dai film horror di Hollywood che dal folklore svizzero e dall’immaginazione individuale. “Sono però ancora orribili”, puntualizza Albert con una risata. Ritiene di averne realizzate seimila per Tschäggättä e di aver partecipato a innumerevoli sfilate, quei giorni sono tuttavia ormai andati.
I costumi pesano sette chili, una roba da giovani. Tradizionalmente i mostri erano uomini non sposati, potevano uscire solo di giorno e mai di domenica. Albert faceva parte di un movimento che mirava a cambiare le cose, negli anni Settanta lui e altri sono usciti dopo il tramonto per protestare contro le rigide regole del comune. Il divieto per gli uomini e le donne sposati e per le scorribande notturne fu annullato – la domenica resta comunque off limits (in ossequio alla funzioni religiose). La vittoria è ricordata ogni anno l’ultimo giovedì del festival con una processione notturna dall’ultimo paese della valle al primo. “È stato speciale farne parte”, racconta mentre rimuove la segatura dalla maschera in lavorazione. “Ma per il resto la tradizione non è cambiata molto. Lo facciamo ancora perché amiamo questa valle e ne siamo orgogliosi”.
Il giorno della processione l’eccitazione è palpabile nella Lötschental. Gruppi di sciatori e snowboarder attendono come al solito alla cabinovia di Wiler, pronti per essere trasferiti in montagna verso le piste più remote. Tra loro si aggirano piccoli cuccioli di Tschäggäs: mostri alti poco più di mezzo metro che corrono ringhiando verso i pedoni e bloccano il passaggio delle auto infuriandosi quando le “vittime” li trovano carini invece che orribili.
Ogni ristorante e ogni taverna espongono una sorta di armamentario di carnevale e allestiscono in strada bancarelle che vendono vin brulé e zuppa. In un vecchio ufficio a Wiler Manuel Blötzer e cinque amici si stanno preparando. Hanno chiesto al comune di poter rilevare il vecchio edificio e trasformarlo nella loro grotta di Tschäggättä, un luogo dove poter conservare i costumi, discutere idee e vestirsi. Uno dopo l’altro entrano nella stanza, scuotono la neve dagli scarponi e si siedono per una chiacchierata con birra e sigarette, Foo Fighters e rap tedesco in sottofondo. Ogni parte della grotta parla di carnevale: più di cinquanta maschere alle pareti rivestite di truciolato, pelli di animali e campanacci di mucche appesi alle travi, guaine di vecchi guanti, massicce cinture di cuoio. “Ogni costume è fatto a mano, basta toccarlo per capire il lavoro che c’è dietro”, dice Manuel. “Ognuno presenta le proprie idee, mi piace questo aspetto di Tschäggättä. Che si tratti di un mostro, di una strega, del diavolo o semplicemente una fantasia, quando sei un Tschäggä ti trasformi in un’altra creatura”.
Ci vogliono novanta minuti perché la trasformazione abbia luogo. Felpe con cappuccio, tute e scarpe da ginnastica vengono sostituiti da cappotti di pelle di pecora, pantaloni di stoffa e stivali militari, i volti che diventano rossi con l’aumentare dei vestiti. I ragazzi si aiutano l’un l’altro a sistemarsi con ago e filo o con strisce di nastro adesivo, e valutano criticamente ogni look. Si tratta di una questione estremamente seria. “Esistono diversi gruppi nella Lötschental, ognuno vuole essere il migliore. Scambiamo a malapena qualche parola con gli altri quando c’è il carnevale”, spiega Manuel, sfrecciando attraverso una rastrelliera di cappotti. Uno degli elementi finali è la cintura di cuoio: per riuscire a infilarla ogni ragazzo viene manovrato in un processo che assomiglia ad una qualche forma di estrema tortura medievale. Vengono distesi sul pavimento e la cintura viene tirata sempre più stretta intorno alla vita da altri due, con i piedi sullo stomaco e sul petto a fare leva. Per issarlo in piedi ci vogliono due persone. Con la maschera su e una scopa, un ramo o un ombrello da brandire, sono pronti. Uno dopo l’altro, emergono dalla grotta. Manuel salta su e giù per assicurarsi che il suo costume sia ben fissato, e aspetta che la sua banda di mostri si riunisca. “Per Tschäggättä ci vuole una notte nuvolosa, così diventa mistico. Si sentono le campane in lontananza e viene da chiedersi: dove sono?”. In fondo alla valle, nel villaggio di Blatten, è apparsa una gigantesca statua di Tschäggä: sorveglia le persone in fila lungo il percorso della processione. Nei ristoranti gli amici si riuniscono per chiacchierare e scaldarsi con vin brulè e distillati di frutta, l’atmosfera è però ancora impregnata di timorosa attesa. Subito dopo le 20h si accende un bagliore. Il suono delle grida mi raggiunge per primo, seguito dall’inevitabile clangore dei campanacci. La gente inizia a correre. All’inizio solo una manciata di Tschäggä si riversa per strada, ognuno alla ricerca di vittime da terrorizzare.
In pochi minuti sono circondata da un centinaio di loro: sovrastano la folla, grugniscono e ringhiano mentre ci sfilano davanti. Spingono le persone, tirano le orecchie, le colpiscono con bastoni, le trascinano dietro di sé. Alcuni scalano banchi di neve e gettano ghiaccio su tutti quelli che si trovano sotto. Sciarpe e cappelli vengono rubati e buttati via. La processione si snoda per circa dieci chilometri lungo la valle ma gli spettatori si fermano nei villaggi, lasciando che gli Tschägga li attraversino. Decido di seguirli per l’intero percorso e presto mi ritrovo da sola, un piccolo essere umano circondato da mostri, a gironzolare nella notte. Da qualche parte nella calca ci sono Manuel e i suoi ragazzi, splendenti e stravaganti. Mentre le luci e il clamore dei villaggi si affievoliscono il trotto degli Tschäggä rallenta fino a diventare una passeggiata, le campane smettono di suonare e i bastoni si trascinano per terra.
Cammino tra loro, incappucciata e con le spalle curve, sperando che, complici l’oscurità e la stanchezza, possano scambiarmi per uno di loro. Riesco ad arrivare all’ultimo villaggio e li lascio ai loro scherzi e alla baldoria.
“Ci sono così tante leggende sul carnevale, ma non sappiamo molto sulle origini”, spiega Thomas Antoniatti che incontro il giorno seguente, dopo aver evitato un solitario e insonne Tschäggä che barcollava intorno a Wiler. Secondo il curatore del Museo della Lötschental, che conserva diverse maschere antiche tra cui una del XVIII secolo, Tschäggättä è un mix di tradizione cristiana e teatro barocco. “La chiesa permise un po’ di caos moderato per tenere sotto controllo gli abitanti della valle. Nel periodo invernale più rigido si lasciava che la gente impazzisse completamente per qualche settimana, poi arrivava la Quaresima”, spiega con una risata. In una stanza sul retro del museo mi mostra una copia di una lettera scritta nel 1850 dal sacerdote Gibsten della chiesa di Kippel. Prima testimonianza del carnevale, nel testo si lamenta dell’anarchia che provoca la Tschäggä. “Voleva vietarla ma non ci riuscì. La tradizione è ancora viva, lui no” racconta Thomas. Quanto ancora viva sia questa oscura tradizione è molto chiaro anche fuori dal museo, dove la gente della Lötschental si sta assembrando per la sfilata. Se la processione del giovedì sera era roba da film horror, il finale di sabato è puro slapstick. Le bande di ottoni marciano, i vari elementi in abiti variopinti. Carri da parata sfilano con a bordo persone vestite da suore, orsi polari e tartarughe ninja, impegnate a lanciare dolci, coriandoli e pezzi di formaggio. Tra di loro ci sono uomini, donne e bambini nei tipici costumi Tschäggä: il sole rende il loro mostruoso abbigliamento meno spaventoso. Uno di loro ci sfreccia accanto a bordo di uno scooter elettrico, agitando un battipanni. Si dirigono tutti verso il centro sportivo del paese per sedersi ai lunghi tavoli bevendo birra e vino e mangiando torte.
Vengono annunciati i premi per i migliori mostri, ognuno riceve punti per il costume, la corporatura e il carattere. Solo quando salgono sul palco per ritirare i premi alzano le maschere e si rivelano tra gli applausi e la sorpresa degli spettatori. I ragazzi della grotta di Manuel si classificano al secondo e terzo posto, il primo è un Tschäggä che indossa la maschera di Heinrich Rieder. Il bere e la festa continuano a lungo dopo il tramonto, i costumi sono stati messi da parte e grossi fiocchi di neve hanno ripreso a cadere da un cielo livido.
La notte, sdraiata nel letto, ascolto le campane chiedendomi se gli Tschäggä stiano tornando per l’ultima volta. Per un po’ il silenzio è di tomba poi da qualche parte nella valle risuona quell’inconfondibile dong, dong, dong. Tiro le lenzuola un po’ più su e chiudo bene gli occhi.
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