Racconto di viaggio: "Un biglietto per Vienna"
Questo racconto di Ann Patchett, pubblicato in origine nel 2016 nella Lonely Planet Travel Anthology, spiega come perdere un volo per Vienna possa regalare, a distanza di un anno, un magnifico nuovo inizio.

Avevo 29 anni e vivevo in Montana con il mio ragazzo quando ricevetti una borsa di studio per un anno al Radcliffe College e mi trasferii da sola a Cambridge, in Massachusetts. All’epoca mi sembrava un’opportunità imperdibile, ma qualche settimana dopo cominciai a rendermi conto di quanto mi sarebbe costata. Spesso, a tarda notte, telefonavo a casa, a Missoula, e nessuno rispondeva, e quando riuscivo a parlarci il mio ragazzo sembrava distratto, evasivo.
La situazione non era ancora precipitata, insomma, ma si intuiva chiaramente come sarebbe andata a finire. Pensai di tornare in Montana per salvare la mia relazione, ma se il danno era ormai fatto – come sospettavo – lasciare Radcliffe avrebbe solo significato perdere sia il mio ragazzo sia la borsa di studio.
A Cambridge, intanto, le giornate diventavano sempre più corte e fredde. Nel tragitto tra il mio minuscolo appartamento e la biblioteca passavo davanti al Brattle Theater, al supermercato Sage e all’agenzia di viaggi dell’American Express. Qualcosa in quell’agenzia mi attirava. Una sera guardai i poster e le locandine in vetrina: la Torre Eiffel, le spiagge bianche di Tahiti. Forse stavo considerando la mia vita da un punto di vista troppo limitato. Forse il mio posto non era il Montana e nemmeno Cambridge. Spinsi la porta ed entrai.
Mi dispiace che le agenzie di viaggi siano quasi sparite. Di certo non sono più quelle affascinanti “botteghe dei sogni” che erano un tempo, con le vetrine che promettevano le bellezze del mondo e il personale sempre pronto ad aiutarti a partire.

Una decisione d’impulso
A vent’anni avevo vinto un concorso di scrittura, con un premio in denaro. Quell’estate comprai dunque un biglietto Eurail e girai l’Europa con un’amica, finché i soldi non finirono. Tra i tanti posti mi rimase impressa Vienna: i caffè che fiancheggiavano la Ringstraße, le catacombe sotto Stephansdom, lo splendido complesso dell’Hofburg.
Ho sempre pensato che, un giorno, ci sarei tornata. Così, quella sera, uscii dall’agenzia di viaggi con un biglietto aereo in tasca e una settimana di soggiorno prenotato in una pensione. Sarei partita a dicembre, per il mio trentesimo compleanno. L’agente di viaggi era colpito dalla mia determinazione, e lo ero anch’io. Non avevo molti soldi in quel periodo, ma bastavano a sostenere una singola decisione d’impulso. Mentre tornavo a casa sembravo un’altra persona: il passo pesante di poco prima era sparito, mi sentivo indipendente, pronta per l’avventura. Non stavo seduta ad aspettare che qualcun altro decidesse del mio futuro. Ero «il padrone del mio destino / il capitano della mia anima», come l’Invictus di William Ernest Henley.

«A Vienna?» disse il mio ragazzo al telefono. «Da sola?»
Immaginai un lontano futuro, una cena tra amici, delle persone sedute intorno a un tavolo intente a raccontarsi che cosa avevano fatto per il loro trentesimo compleanno. Io avrei detto che ero andata a Vienna. Da sola.
Mi procurai un blocchetto di traveller’s check e cambiai 200 dollari in scellini austriaci. Rinnovai il passaporto. Alla fine di novembre salutai i miei amici di Cambridge e loro mi fecero in anticipo gli auguri per il compleanno. Preparai la valigia e la lasciai accanto alla porta. Alle 5 del mattino successivo avrei chiamato un taxi per andare all’aeroporto. Mi sedetti sul letto. Arrivarono le 4, poi le 4 e mezza, poi le 5. Continuavo a ripetermi di prendere il telefono e chiamare il taxi. Potevo anche trovarne uno in Harvard Square, poco lontano. Erano le 5 e un quarto. Avevo pianificato di arrivare in aeroporto presto. C’era ancora molto tempo prima del volo. Rimasi lì a guardare l’orologio. Le 5 e 45.
Un peso sopra la testa
Non ero abbastanza coraggiosa per andare da sola? Avevo paura di perdere il mio ragazzo? Ero malata? Avevo un attacco di panico? Stavo avendo una premonizione, magari un incidente aereo? Non ne avevo idea. Sapevo solo che non mi alzavo. Non prendevo la valigia. Non chiamavo il taxi. Era come se un peso sopra la mia testa mi impedisse di muovermi. Erano le 6, ormai. Mi sdraiai sul letto, ancora con il cappotto addosso, e piansi. Mi vergognavo di me stessa. Quattro ore dopo mi svegliai con la febbre e cominciai a vomitare. Andò avanti così per cinque giorni.
Non ricordo di essermi mai stata così malata e insieme così felice: un’euforia da scampato pericolo. Se fossi partita, mi sarei sentita male sull’aereo. E poi? Sarei atterrata a Vienna in quelle condizioni terribili. Avrei dovuto arrivare alla pensione in qualche modo, arsa di febbre, senza conoscere una parola di tedesco.
Chiamai un’amica, che mi lasciò fuori dalla porta una bottiglia di ginger ale e dei crackers. Dormii il giorno del mio trentesimo compleanno e anche quello successivo. Il mio ragazzo mi chiamò per sapere come stavo. Mi ripresi. Dopo Natale, mi confessò che si era innamorato di una delle sue studentesse.

Iscriviti alla nostra newsletter! Per te ogni settimana consigli di viaggio, offerte speciali, storie dal mondo e il 30% di sconto sul tuo primo ordine.
Se incontrate qualcuno che vi piace, chiedetegli di andare con voi a Vienna
A Missoula vivevamo in un appartamento ammobiliato, non possedevamo molto. Mi spedì le mie cose per posta in alcune grosse scatole. Faceva molto male, ma non mi sarei piegata. Tornai all’American Express. La somma pagata in anticipo per la stanza a Vienna era irrimediabilmente persa, ma l’agente di viaggi mi disse che avevo un anno per utilizzare il biglietto aereo.
L’autunno prima di compiere trentun anni vivevo a Nashville. Per mesi avevo sentito il biglietto aereo ticchettare da un cassetto come un orologio biologico. Avevo ancora in programma di andare a Vienna, e di andarci da sola, ma dopo il fallimento dell’anno precedente esitavo a muovermi. Nel frattempo, ero uscita tre volte con un uomo simpatico di nome Karl. Sua moglie lo aveva lasciato da poco e lui era molto disorientato, costretto a riconsiderare totalmente la propria vita. Alla nostra quarta uscita, lo guardai. Mi sedeva di fronte, al ristorante. Non era uno sconosciuto, lavorava con mia madre, e allo stesso tempo non potevo dire di conoscerlo davvero. Ma che cosa sarebbe la vita senza un po’ di rischio? Gli chiesi se voleva andare a Vienna.
Sì. Disse di sì, e poi lo ripeté senza pensarci due volte: Sì. Mi venne in mente la sera in cui ero entrata nell’agenzia di viaggi. Gli spiegai che il mio biglietto stava scadendo: dovevamo partire in fretta. Mi disse che «in fretta» non sarebbe stato un problema.
Non stavo mettendo in atto una strategia di corteggiamento, lo giuro. Ma è così che è andata, quindi mi sento di dare un consiglio: se incontrate qualcuno che vi piace, chiedetegli di andare con voi a Vienna.

Vale la pena aspettare
Come si è scoperto, il nostro viaggio a Vienna coincideva con il compleanno di Karl, che cadeva un paio di settimane prima del mio. Mangiavamo dolci al marzapane e camminavamo lungo il Danubio tenendoci per mano. Nelle catacombe attaccammo discorso con una giovane donna. Viaggiava da sola, credo fosse dell’Alabama. Quando ce ne andammo, Karl disse che sembrava stanca e senza soldi e che dovevamo invitarla a cena, così tornammo indietro, la rintracciammo e la portammo con noi in un meraviglioso ristorante chiamato Drei Hussars. Bevemmo bicchierini di vodka ghiacciata e densa, con polpa di pesca. Mi chiesi se qualcuno mi avrebbe invitata a cena se fossi riuscita a raggiungere Vienna un anno prima: mi risposi di no, non sarei mai riuscita a lasciare la mia stanza.
Karl e io avevamo pianificato di passare metà del nostro soggiorno in Europa a Praga, ma mentre stavamo andando verso la stazione vide un vecchio set di posate in una vetrina. Da quando si era separato, Karl non possedeva posate. In effetti, non possedeva niente. Mercanteggiò con il proprietario del negozio, comprò forchette, cucchiai e coltelli e li fece spedire nel Tennessee. La contrattazione richiese più tempo del previsto e finimmo per perdere il treno. Non ce n’erano altri per Praga fino al giorno dopo. Arrivati alla stazione, ci mettemmo a guardare il tabellone delle partenze.
«Budapest» disse Karl passando in rassegna le destinazioni. «Non sono mai stato a Budapest».
Nemmeno io ci ero stata, quindi salimmo su quel treno. In quel momento essere insieme contava di più di un posto o dell’altro. È così ancora oggi, del resto. A Budapest Karl mi comprò un anello d’oro sottile per ricordare quel giorno, e undici anni dopo ci siamo sposati. Tanto impetuosi all’inizio della nostra storia, più tardi non abbiamo avuto fretta: siamo tipi impulsivi ma anche estremamente cauti. Abbiamo capito di amarci, infine, e che Vienna è una città per cui vale la pena aspettare.