Tago, il villaggio sospeso della Georgia che si raggiunge solo con una funivia sovietica
I monti dell’Adjara, un territorio che è repubblica autonoma situato nel Sud Ovest della Georgia, schiacciato tra montagne, Turchia e Mar Nero sono luogo atipico rispetto al resto del paese. Qui vivono gli agiari, un gruppo etnografico del Caucaso minore convertito in parte all’Islam durante le invasioni ottomane. Solitamente ci si ferma a Batumi, il capoluogo nuovo e scintillante in riva al mare, ma è nell’interno della regione che l’identità unica di questo luogo ha saputo esprimersi al meglio. E Tago, la mia meta, è una sintesi estrema di tutto questo, raggiungibile com’è quasi esclusivamente con una funivia molto particolare.
Dopo un frappuccino all’ultima moda a Batumi le ore di viaggio si srotolano tra le curve dell’Adjara, cascate e strade che scappano inerpicandosi in misteriosi valli laterali e quando raggiungo Khulo, uno dei principali insediamenti della valle, ho l’ingenua idea di essere “quasi” arrivata.
Ma il “quasi” da queste parti, tende a dilatarsi nel tempo, impacciato da strade sterrate e canyon. So che devo raggiungere una funivia celebre tra gli amanti di reperti sovietici, mi sono informata al riguardo e sono pronta, o così credo, all’attraversamento della gola solcata da quella bizzarra scatoletta aggrappata a un cavo. Parcheggio la macchina inconsapevolmente proprio davanti a un blocco di cemento in ristrutturazione che si rivela essere la partenza della funivia. Passata un’impalcatura presidiata da operai sorridenti ma privi di informazioni per una turista con lo zaino, mi trovo al cospetto di un buco nel pavimento protetto da incerte balaustre e nulla più. Un cavo si lascia andare giù verso il niente e si confonde con il verde del canyon. Non c’è nessuno intorno a governare questo vuoto affacciato sul dirupo e lo squarcio di natura sotto di me sembra chiamarmi in modo mistico.
Questa funivia è davvero unica, lo si percepisce anche senza poterla ancora vedere, con la cabina persa nel fulgore del paesaggio. Costruita nel 1985 e lunga 1919 metri, non è sostenuta da alcun sostegno intermedio, per cui risalendo i 350 metri di dislivello sulle gole del fiume Adjaristskali ci si affida alla solidità della sua fattura sovietica.
Ma il bello del viaggio è che, proprio come in un film, ogni scena è spinta via da un’altra, e in poco tempo arrivano delle ragazze russe che sembrano uscite da un video trap con delle notizie fresche: il passaggio al villaggio via cavo è sospeso a causa di riprese cinematografiche, non ci resta che condividere una jeep e mettere in pausa l’avventura a penzoloni nel nulla che già pregustavo.
La strada che imbocchiamo dopo una trattativa tra gli autisti di jeep sembra fatta più di sobbalzamenti e buche che di terra e pietre. I freni tirati e gli sdrucciolamenti in retromarcia sono una costante nelle aree rurali della Georgia, ma sebbene non mi ci sia completamente abituata e il viaggio via terra sia molto più lungo, mi sembra giusto non essermi affidata subito alla funivia.
L’ingresso a Tago è un pò confuso nella memoria, vedo ora le unghie laccate delle mie compagne di jeep, ora il tettuccio su cui sbatticchio con la testa, e poi, ogni tanto, un pezzo di giardino ricoperto di fiori, uno schizzo del fiume che attraversiamo, un lenzuolo steso ad asciugare, uno scorcio che si apre nella valle. Mucche. Sembra il trailer di un capolavoro paesaggistico.
E quando la macchina si ferma non ci vuole molto a capire che è davvero così. Scendo e mi trovo in un prato verdissimo, popolato da una manciata di tende bianche a cupola sormontate da una colorata e più grande, che controlla la valle e assieme accoglie chi si spinge fino qui. Sono arrivata al Glamping Tago, il campeggio sociale che trasuda bellezza.
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È quasi ora del tramonto, il check in è in linea con lo stile del luogo: semplice e capace di soddisfare ogni vero bisogno. Mi vengono subito offerte una birra e un tappetino e mi sembra perfetto perché sono esattamente le uniche due cose che mi servono davvero in questo momento. Tutto il resto è già lì, davanti agli occhi di chi si avventura fin qui. Seduta sul bordo di questa radura posso ammirare il sole ballare con i colori della valle mentre dai villaggi in legno colorato si alza il richiamo alla preghiera. I minareti non sono quelli che ci si abitua a vedere dai tetti di Istanbul o tra le maioliche di Marrakech. Sono massicci campanili di legno e lamiera, che si fanno notare a fatica nell’economia montana di questi borghi. E la loro cantilena scivola sicura tra questi monti che fin dal Sedicesimo secolo ospitano la comunità musulmana della Georgia, incuranti del loro effetto dissonante in chi, come me, è abituato ad associare la montagna a baite e chiesette, madonne votive e gerani.
La notte viene accompagnata dal profumo di burro del katchapuri, una specie di focaccia georgiana arricchita di burro, formaggio e talvolta anche di uovo, che impregna i ricordi di tutti i viaggi in questo paese. Ma qui è diverso, perché si mangia tutti insieme nella grande tenda, riscaldandosi quanto basta per poi dedicarsi al grande spettacolo delle stelle e dei racconti di viaggio intorno al fuoco. Cosa hai visto della Georgia, quanto ti fermi, meglio lo Svaneti o il Tusheti, e poi, ovviamente, la funivia. Chi l’ha già presa, chi la prenderà.
L’alba mi sveglia come fosse un sogno, con i colori gentili dei prati e con quel canto alla preghiera che risale, ormai famigliare: una mano che ti rimbocca la coperta per assicurarti qualche ora di sonno in più su questi materassi immacolati e morbidi di bianco.
Preoccupata com’ero di arrivare fin qui, non mi ero davvero preparata sul cosa fare, ma per fortuna le opzioni non mancano. Le passeggiate sono numerose e tutte richiedono scarpe buone, pranzo al sacco e un passaggio in jeep per arrivare al punto di partenza. Una delle più popolari va al Lago Verde che, come si può intuire, ha le acque di un particolare color verde. Di origine vulcanica, si trova vicino al passo di Goderzi, a 2133 metri di altitudine. Un’altra opzione è la fortezza di Khikhani, una costruzione medievale nella parte superiore del villaggio Tkhilvana, a 2200 metri, al confine tra Georgia e Turchia. Questo luogo racchiude tutto il fascino della valle, arroccato, sperduto, eppure monumentale nella sua potenza passata. Il bosco si è impossessato delle mura, che tuttavia continuano a raccontare di battaglie tra il regno di Adjara e l’impero ottomano e le leggende nate tra quelle pietre riecheggiano ancora più forti nella valle silenziosa. Potrete decidere di mettervi in cammino già a Khikadziri, preparandovi per un trekking di 3 ore e mezza e un dislivello di 1124 metri o di farvi portare con una jeep lungo la classica strada a buche fino al confine della foresta, arrivando a un sentiero da cui potrete solo proseguire a piedi camminando per un’ora abbondante e per un dislivello di 442 metri. A voi la scelta.
Ma, a dir la verità, quando queste camminate mi vengono proposte sto sorseggiando un tè compiaciuta di essere arrivata, dopo quasi un mese di viaggio tra Georgia e Armenia, in questo luogo sperduto. Ho già visto le montagne del Tusheti e camminato a lungo sotto il sole estivo e la pace delle valli d’Adjara non instillano in me il desiderio di raggiungere un nuovo traguardo, ma piuttosto di crogiolarmi nella loro bellezza. Ecco perché quando mi viene suggerita una tranquilla passeggiata tra i boschi verso il monastero di Skhalta non verifico il percorso e trotterellando mi avvio lungo il sentiero, attraversando i prati dell’altopiano, salutando le case di legno con le foglie di tabacco stese ad asciugare, scambiando sorrisi e parole destinate a restare incomprensibili con signori dalle barbe bianche e i pantaloni di velluto.
Quello che forse avrei dovuto controllare, però, era la pendenza del sentiero, che scende giù per 9 kilometri e fa si che, arrivati al paese di Kinchauri, ci si emozioni più per la birra fresca offerta dal negozio locale che non per il monastero. Certo il silenzio che vive nelle pietre medievali, i dipinti di fine ‘400, l’ombra del suo giardino e la mancanza di altri visitatori, eccezion fatta per il pope che osserva di sottecchi il mio abbigliamento madido di sudore e poco appropriato, lo rendono uno dei monasteri più raccolti che abbia visitato. Ma è quel che accade appena dopo che mi racconta di più di questa regione. Nell’internazionale lingua del farsi capire ricevo un inaspettato invito a pranzo da parte dei lavoratori impiegati a rendere agibili le strade: un mix di cetrioli, katchapuri, molta cha cha (grappa fatta in casa), uova sode e un passaggio in macchina a bordo di una mercedes sovraffollata in cui risuona blues classico e un gran vociare in georgiano.
E quindi sì, quando arrivo davanti alla funivia finalmente pronta a lanciarmi attraverso la gola, sono un po’ alticcia. Ogni timore è scomparso e mi affido a quella lattina colorata piena di fiducia, appiccicata alla porta a vetri, chiusa appena con un gancio arrugginito, come una bambina al luna park. Del resto lo spettacolo attorno a me è così bello da sembrare parte di un set: con le casette di legno che si fanno quadratini bianchi nel verde impetuoso di quella giungla montana che scorre sotto di me. Il dubbio viene peraltro rafforzato dalla troupe cinematografica che incontro al bar sul punto panoramico, intenta a girare una scena con un finto contadino al lavoro, mentre uno vero mi accoglie con un tè: quel che ci vuole prima di risalire attraverso i noccioleti fino al campeggio.
La giornata sarebbe già stata piena di emozioni e degna di nota se il tramonto fosse arrivato, come la sera precedente, a trovarmi accoccolata tra le morbide coperte del glamping. Ma quel lusso così semplice ed economico va a ruba (ricordate di prenotare in anticipo) e per restare una notte in più a Tago non resta che la stanza messa a disposizione della signora che fa il formaggio per il ristorante delle yurte. È già sceso il buio quando seguo la signora che, con zoccoli e gonna lunga, salta da una pietra all’altra elegantemente, mentre io arranco sotto il peso dello zaino. La casa è una massa scura di legno immersa nel silenzio interrotto soltanto da qualche mucca che, di tanto in tanto richiama l’attenzione.
È mattina inoltrata quando scopro di essere in un paradiso ancora più segreto del glamping: il giardino è una giungle di piante e fiori e la colazione è un’ode al latte appena munto: panna, formaggio, katchapuri (ovviamente) e soprattutto borano, un mix di patate e formaggio galleggianti nel burro, il tutto accompagnato da un tè arricchito da erbe locali. Questo banchetto è quel che serve per scendere all’imbocco della funivia, seguendo una donna del posto che porta in testa un sacco di patate, un bambino che le sciabatta a fianco e attraversare il sentiero in terra che taglia il paese. I bambini qui fanno questo tragitto ogni giorno per andare a scuola, compreso il volo di 1919 metri affidati a quel cavo che, ormai, non mi fa paura. Ora mi sembra quel che è: un filo magico capace di lasciar volteggiare il villaggio di Tago come un palloncino sospeso tra le pieghe del tempo.