Nelle terre estreme: in Siberia con i Nenec
Il volo dall’Italia a Mosca, un altro volo interno per Salechard, cittadina sul Circolo Polare Artico, infine oltre dieci ore a bordo di un mezzo a quattro ruote. È un lungo viaggio quello necessario per addentrarsi nel vasto territorio della Siberia e raggiungere la penisola Jamal. Il nome in lingua nenec significa “fine della terra” e in effetti, a guardarla sulla mappa, questa immensa penisola si spinge davvero verso l’estremo nord del mondo, distante da tutto. Ad abitare queste terre di tundra e permafrost sono i Nenec (o Nenet), popolazione indigena di allevatori di renne che conta circa 41mila individui. Il fotografo Gabriele Pedemonte ha vissuto alcuni giorni con loro condividendo tende, calore della stufa, carne di renna e indimenticabili aurore boreali.

Una minoranza etnica con un patrimonio da tutelare
I Nenec sono un popolo nomade: si muovono ogni due settimane circa. Nei loro spostamenti nella tundra disegnano una sorta di simbolo dell’infinito: una delle due “pance” è la zona in cui stanno in inverno, l’altra quella della primavera e dell’estate. Il punto di congiunzione centrale è il posto in cui lasciano le motoslitte e il materiale che possono avere bisogno di recuperare in seguito. Come per molte minoranze etniche, anche per questa popolazione indigena di origine samoieda la possibilità di mantenere vive la propria cultura e la propria lingua è un tema attuale. La scrittrice Anna Nerkagi, principale voce letteraria della comunità Nenec, ne fa cenno indirettamente nel suo romanzo del 1977 Aniko, tradotto per la prima volta in Italia nel 2022 da Utopia. Nata nel 1952 nella penisola Jamal, Nerkagi all’età di sei anni viene, come da prassi, prelevata dalle autorità sovietiche e portata in città per studiare in un collegio: qui impara il russo, si laurea, perde il contatto con la sua cultura e dimentica la sua lingua madre. Lo stesso accade ad Aniko, protagonista del romanzo omonimo di stampo autobiografico: quando la donna ormai adulta raggiunge nuovamente i luoghi della sua infanzia si sente un’estranea e si domanda se un ritorno definitivo sia davvero possibile.

Tanto freddo, poca luce: la quotidianità invernale nella tundra
La cultura Nenec, le loro usanze, anche le difficoltà della vita quotidiana: Gabriele Pedemonte ha avuto modo di conoscere questi aspetti da vicino, nel corso del suo viaggio a dicembre 2021, e li ha raccontati con la sua macchina fotografica. “Mi sono avvicinato alla fotografia otto anni fa, in seguito a un periodo di depressione: come dico sempre, è lei che mi ha salvato”, spiega. Coniugare questa passione con quella per i viaggi è venuto spontaneo. La prima spedizione è stata in India, l’ultima (per ora) in Indonesia, dove ha vissuto una settimana nella foresta di Siberut con la tribù dei Mentawai. Questo bisogno di entrare in contatto con le comunità locali è emerso anche in Siberia. “Sono dell’idea che i posti li fanno le persone. Per comprendere, e anche per ottenere un lavoro migliore a livello fotografico, bisogna stare a contatto con loro e vivere la loro quotidianità. Si dorme assieme, si mangia assieme, si condividono gli spazi: per me è indispensabile fare questa esperienza di vita con le persone del posto. Il giorno della partenza ci si saluta sempre con grandi sorrisi e qualche lacrima”.

Nel caso dei Nenec, condividere la loro quotidianità equivale ovviamente a fare i conti con le sfide della vita nella tundra siberiana. A partire dalle temperature: tra i meno venti e i meno venticinque gradi, che sono diventati meno cinquanta con l’arrivo di una perturbazione inattesa. Accompagnati da una guida russa, Gabriele e gli altri viaggiatori del suo gruppo hanno alloggiato in due čum (le tende coniche tipiche degli allevatori di renne) abitate da altrettante famiglie, in una comunità Nenec composta da una quindicina di individui in tutto. “I fattori insoliti a cui abituarsi sono stati diversi. L’assenza del bagno, ad esempio: si fa tutto nel deserto di neve ghiacciata, con temperature che sono arrivate anche a meno quaranta o meno cinquanta. Ci si lava come si riesce, senza acqua: in tenda però ci sono sempre altre persone e bambini, quindi spogliarsi è un problema. Essendo dicembre, poi, avevamo solo quattro ore di luce al giorno: è stato strano e inizialmente mi ha sfasato il sonno e l’alimentazione”.
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La vita condivisa nella tenda
Esternamente coperte da pelli di renna e, in situazioni di freddo estremo, anche da teloni di plastica, le tende dei Nenec hanno interni abbastanza essenziali. Le pelli di renna “foderano” anche la zona notte, dove si dorme uno accanto all’altro, mentre la stufa occupa la parte centrale del cono, con la canna fumaria che esce all’esterno. Nella parte opposta all’ingresso ci sono tavoli, stoviglie, provviste, vestiario e tutto ciò che compone il bagaglio invernale. “C’erano alcune regole di convivenza da rispettare. La tenda era divisa in due: una parte per noi ospiti e una riservata ai Nenec. Noi ospiti non potevamo andare nella loro parte, a meno di non chiedere prima il permesso e comunque sempre passando davanti alla stufa, non dietro”.

Le ore di buio, che in inverno sono la maggior parte, si trascorrono naturalmente in questo luogo riparato. Che, dopo una normale diffidenza iniziale, è diventato anche uno spazio per conoscersi e raccontarsi, grazie alla mediazione linguistica della guida. “All’inizio le persone erano un po’ chiuse, introverse. Ci hanno studiato molto ed è stato complicato rompere il ghiaccio. Quando siamo entrati in confidenza, invece, abbiamo comunicato di più. Sono riuscito da subito a scattare foto ai bambini: sono più spontanei e già il semplice giocarci insieme abbatte le barriere. Le foto agli adulti sono venute dopo, perché era necessario prima stabilire un rapporto, una fiducia reciproca”.
Il moto infinito di un popolo nomade
Nell’accampamento ci sono anche le renne, il fulcro della vita degli allevatori Nenec: questi animali sono la forza motrice che traina le slitte (ce ne sono ancora alcune tradizionali, accanto alle motoslitte), sono la pelliccia con cui vestirsi e foderare le tende e sono anche la base della dieta, dato che la loro carne viene mangiata insieme a riso o pasta. Il gregge di renne va in cerca di cibo nella tundra, scavando sotto il ghiaccio, spesso allontanandosi di parecchio dall’accampamento. “Le renne girano liberamente e quando è il momento di spostare il campo i Nenec le vanno a recuperare a cavallo. Hanno anche cani intelligentissimi che, quando hanno abbastanza esperienza, possono eventualmente occuparsi da soli del recupero del gregge”.

Mentre Gabriele era ospite della comunità nomade, le renne hanno esaurito le fonti di cibo della zona: un segnale del fatto che era arrivato il momento di levare le tende e spostarsi altrove. “I Nenec hanno smontato il campo completamente: hanno tolto le assi che fanno da pavimento e le travi che sostengono le tende, piegato le pelli... Hanno caricato il tutto su slitte e motoslitte agendo il più velocemente possibile per sfruttare le poche ore di luce, ma hanno comunque finito di allestire il nuovo campo con le torce".
Il silenzio morbido del deserto di ghiaccio
La vita dei Nenec non si svolge solo nell’isolamento della tundra. "Frequentano regolarmente un paese lì vicino, nel quale in genere scambiano i prodotti ricavati dalle renne con pasta, riso e altri beni”, racconta Gabriele. Inoltre, anche oggi i bambini seguono un percorso di istruzione obbligatoria che inizia intorno ai sei anni e prosegue fino ai diciotto o diciannove: a quel punto scelgono se tornare a casa o vivere in città. Durante questo periodo di studio, però, mantenersi in contatto con la famiglia è probabilmente più semplice rispetto ai tempi della scrittrice Anna Nerkagi. “I Nenec hanno dei telefonini vecchio modello, almeno uno per famiglia", prosegue Gabriele. "Ho anche avuto modo di parlare con un ragazzo che ha deciso di tornare dopo gli studi: scherzando, ci raccontava che stava cercando moglie. La vita nella tundra è semplice: devi badare alla tua famiglia, alle tue renne... Il tuo mestiere è sopravvivere, in un certo senso”. Chi torna tra i Nenec, comunque, torna in un deserto ghiacciato di rara bellezza. “È una distesa bianca senza fine, disseminata ogni tanto da qualche cespuglio e alberello. Le notti sono incredibili: i cieli stellati, la luna che illumina la distesa bianca... Abbiamo visto anche due aurore boreali. C’è una tale pace, un tale silenzio. Un silenzio morbido. È davvero molto particolare”. Per la cronaca, anche Anna Nerkagi è poi tornata tra i Nenec: dopo l’acclamato esordio letterario, nel 1980 si è stabilita di nuovo nella tundra, ha fondato una scuola per giovani Nenec e si è dedicata alla valorizzazione delle minoranze in Russia.