Marocco inaspettato: turismo sostenibile e desert rock
Viaggio a M’Hamid El Ghizlane, nella provincia di Zagora, dove la strada finisce e comincia il deserto del Sahara, per il Festival des Nomades: strano posto dove ascoltare una chitarra elettrica.
Benvenuti a... Zagora?
«Benvenuti a Ouarzazate, grazie per aver volato con Royal Air Maroc, vi preghiamo di mantenere i vostri dispositivi elettronici spenti fino all’arrivo al term…» la hostess si blocca con lo sguardo fisso nel vuoto. Poi si gira verso di me – sono nell’ultimo sedile del piccolo aereo – e chiede, in francese: «Ma siamo a Ouarzazate?». Metto su l’espressione internazionale del «Mah, se non lo sai tu…», mentre i passeggeri confusi cominciano ad aprire le cappelliere e ingorgano l’uscita. In realtà siamo a Zagora, come dimostrano inequivocabilmente le scritte sul piccolo terminal marrone, nuovissimo, piantato in mezzo al deserto. Il volo da Casablanca non c’è da molto, per cui si può facilmente scusare la défaillance dell’assistente di volo. E soprattutto Zagora è, in effetti, solo la prima fermata: l’aereo, scaricati i passeggeri, riparte per Ourzazate, a un paio di ore di macchina da qui, prima di rientrare a Casablanca. La ragione per cui molti si spingono fino a qui è una, soprattutto: fare escursioni nel deserto del Sahara, e raggiungere la spettacolare Erg Chigaga, un tratto di dune sabbiose a una cinquantina di chilometri di pista oltre il paesino di M’Hamid El Ghizlane, verso il confine chiuso con l’Algeria. Dune a parte, a M’Hamid si tiene anche il Festival des Nomades, lo scopo del mio viaggio.
Ormai alla quattordicesima edizione, il festival cresce sempre più, e comincia ad attirare spettatori dall’estero (quest’anno si è tenuto dal 16 al 18 marzo). L’edizione 2017 proponeva come headliner Bombino e Terakaft, ovvero – a parte i “padri fondatori” Tinariwen, che proprio a M’Hamid hanno registrato parte del loro ultimo disco Elwan – probabilmente i due nomi del “rock tuareg” più visibili in Occidente, rispettivamente da Niger e Mali. Insieme a loro la leggenda marocchina Nass El Ghiwane, un gruppo attivo dagli anni settanta e da sempre politicamente engagé, e altri artisti locali (fra cui spicca la diva di Laâyoune, uno dei maggiori nomi della canzone hassani, Saida Charaf), oltre a eventi di contorno come conferenze, corsa dei dromedari (spoiler: vanno al piccolo trotto), parate di marionette giganti e “hockey nomade” (spoiler: è come quello normale, ma sulla sabbia).
Da Zagora a M'Hamid El Ghizlane
Prima del volo RAM – due a settimana, il giovedì e il lunedì – per arrivare a Zagora servivano almeno 8-9 ore di autobus da Marrakech. Il capoluogo della provincia dista una decina di minuti dal suo nuovo aeroporto nel nulla, e M’Hamid El Ghizlane è a un paio d’ore di auto ancora. Trentamila abitanti, un centro a cavallo della strada principale come le vecchie città del far west, Zagora è l’ultima città “grande” prima del deserto. Da qui la strada prosegue verso sud lungo la valle completamente secca del fiume Draa, il “corso d’acqua” (virgolette d’obbligo) più lungo del Marocco. Dopo pochi chilometri si incontra Tamegroute, sede di una importante scuola islamica e di una confraternita sufi (Nasiriyya): i turisti diretti verso il deserto di solito fanno sosta qui per visitare il souk, o per comprare il vasellame locale, di un verde intenso (il “verde Tamegroute”). Proseguendo, il paesaggio si fa sempre più brullo e spoglio. A cinquanta chilometri da M’Hamid la strada sale e attraversa un canyon di roccia, e appaiono le prime dune… M’Hamid El Ghizlane sorge in un’oasi, ed è il posto dove la strada finisce. Letteralmente, non è una frase ad effettot: dopo le ultime case, disposte ai lati della strada, la striscia di asfalto si interrompe. Da lì in avanti comincia il deserto del Sahara.
Cliché romantici e desertificazione
Secondo gli uffici del turismo, le dune di M’Hamid sono le seconde più grandi del deserto marocchino, dopo quelle più note – e più facilmente raggiungibili – dell’Erg Chebbi, nei pressi di Merzouga (più a nord). Ma, sempre secondo gli uffici del turismo, Erg Chigaga e M’Hamid garantiscono l’esperienza più “autentica”: meno gente, meno turisti, meno facilitazioni, più lontano. C’è ovviamente una grande componente di romanticismo nel volersi spingere fino a qui per vedere – di fatto – il “nulla”. E in effetti la popolazione turistica di M’Hamid, che compare improvvisamente nella foschia di una piccola tempesta di sabbia, è in buona parte composta da ultimi romantici: camper con attempate coppie dal Nord Europa e dalla Francia, vecchi fricchettoni reduci dalla Tangeri psichedelica, giovani fricchettoni con chitarra, rasta e sacco a pelo (tantissimi: al tramonto li si trova ai margini della città che fanno il saluto al sole).Negli ultimi anni, l’instabilità geopolitica dell’area del Nord Arica – fra la guerra in Mali, le primavere arabe e l’eternamente conteso Sahara Occidentale – ha reso la minuscola fetta di Sahara settentrionale appartenente al Marocco l’unica possibilità sicura per gli occidentali desiderosi di provare l’esperienza deserto. M’Hamid si è rapidamente adattata: se le merci girano ancora su carretti tirati da asini, il centro del paese è pieno di agenzie che promettono tutto il menu sahariano più prevedibile, dalla gita sul dromedario alla notte in tenda nomade. Intorno alla “piazza” centrale – dove nel 1957 il re Mohammed V pronunciò un importante discorso all’indomani dell’indipendenza del Marocco, unendo sotto la bandiera con la stella le popolazioni nomadi della zona – girano Suv e 4x4 di ultimo modello, e anche i taxi di quella che viene pomposamente chiamata “Gare Routière” (in realtà, 20 metri di marciapiede dove fermano i trasporti collettivi) sono nuovi ed efficienti.
La crescita del turismo del deserto (voce assolutamente necessaria per la sopravvivenza della popolazione) va di pari passo con la desertificazione della valle del Draa, dove la siccità dura da una ventina d’anni. L’ecosistema non è mai stato così fragile, e dove prima passavano le vie carovaniere dirette a Tombouctou (a 50 giorni a dorso di dromedario da M’Hamid) ora passano rumorosi quad, inquinando e danneggiando la flora. È un problema di cui Noureddine Bougrab, il direttore artistico del Festival des Nomades, è ben consapevole. Noureddine insegna arabo nella scuola primaria di M’Hamid. Ha messo su il Festival des Nomades con alcuni giovani del luogo perché sentiva un vuoto nell’offerta culturale del suo paese e – forse – per offrire un’immagine diversa da quella dell’“oasi prima del deserto” delle agenzie turistiche e delle cartoline con dromedari e dune. «Purtroppo – racconta – ci sono dei cliché. Il turista vede certe immagini sui media, e le vuole ritrovare qui. E il cliente è re nel commercio. Quindi siamo stati portati verso un certo tipo di turismo di massa, che danneggia l’ecosistema… che cerca le immagini, non il vero». Il paradosso sta, ovviamente, nella promozione turistica: come si può preservare la sostenibilità del turismo in un’area così fragile dal punto di vista ambientale... Organizzando un festival e cercando di farlo crescere? In realtà Noureddine sembra consapevole del problema: «Sappiamo di essere sul filo. Sappiamo che bisogna amministrare bene, assestare il Festival des Nomades in una fascia media, non crescere troppo e non orientarsi verso il materiale. Non possono venire tutti, al Festival des Nomades, ma il messaggio che vorrei passasse è di venire a M’Hamid a incontrare la gente, a scoprire la gente. Non solo per il festival: ci sono opportunità sempre». La soluzione, secondo Noureddine, è quella di un turismo autentico, culturale, che va a piedi e apprezza la lentezza dell’esperienza-deserto. «Io dico: viaggiatori, venite, non esigete nulla se non di essere accolti bene»
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Oltre i cliché
Parte del fascino di M’Hamid per il viaggiatore – o per il turista culturale –sembra essere proprio nella fragilità della sua posizione, stretta fra la crescente facilità di arrivarci e il rischio che ci si possa arrivare troppo facilmente. Lo stesso fatto che si propagandi ai turisti “l’autenticità” dell’esperienza è un paradosso (che deserto è, se è pieno di gente?). Eppure, cercando di uscire dalle cartoline con dromedari e tramonti sulle dune, il plus di questa fetta di Marocco è il suo essere ancora fortemente, tenacemente legata ai modi di vita tradizionali, al nomadismo, a un rapporto simbiotico con il deserto e con l’ambiente naturale. Anche i vestiti tradizionali sono legati all’esigenza della vita quotidiana di chi abita questa zona. Il bianco per farsi scorgere da lontano. I variopinti turbanti che tutti i negozietti di M’Hamid vendono, e che i turisti goffamente arrotolano intorno alla testa, non sono un marchio di autenticità o un vezzo: sono l’unico modo per proteggere la testa dal sole, e la bocca dalla sabbia portata dal vento.
L'accoglienza e l’ospitalità sono parte dei modi tradizionali: in un luogo dove l’acqua scarseggia, dividere quello che si è un’esigenza che si apprende. Per scoprire qualcosa di più e uscire dai cliché basta visitare la vecchia kasbah di M’Hamid (Ksar M’Hamid), a un paio di chilometri dalla città nuova costruita dai francesi. Qui, in un polveroso complesso chiuso da mura di cinta (ricordo di guerre tribali di qualche secolo fa) vivono poco meno di un centinaio di famiglie. Le case sono interamente di pisé (la tecnica di costruzione tipica della zona, con le pareti di argilla e paglia triturata). Le donne, tutte con l’abito nero tradizionale della tribù, con ricami floreali, si affacciano silenziosamente da dietro gli angoli: alcune hanno messo su una cooperativa, sulla piccola piazzetta di sabbia, dove vendono tessuti e prodotti locali. Incontriamo alcuni anziani della comunità in una casa: due piani, una corte quadrata aperta, pavimento di terra battuta. In un angolo il necessario per cucinare, il televisore, un cartellone con l’alfabeto arabo. Al piano superiore le camere da letto. Raccontano del passato, di quando pioveva di più, di aver girato il Marocco come muratori ma di essere, alla fine, tornati lì. Si scorgono, certo, i segni della povertà (almeno secondo i parametri nostri occidentali). Ma dalle parole degli abitanti, o almeno di quelli che sono tornati, si riconosce anche una profonda affezione, la volontà di restare, l’amore per il deserto e per il proprio territorio.
Una chitarra elettrica nel deserto
Altri cliché da superare, altri paradossi: dietro il palco del festival chiacchieriamo con alcuni musicisti, un gruppo di adolescenti di M’Hamid che ha messo su una band. Di che genere? Di “desert blues”, ovviamente. Quello che in Europa chiamiamo “rock tuareg”, “desert blues” o “desert rock”, e che ascoltiamo nel grande calderone della world music, qui è musica profondamente amata e popolare. Musica del Sahara, con una forte componente identitaria. La chitarra elettrica non è strumento americano o occidentale: è, per questi giovani cresciuti con YouTube, il vero strumento tradizionale, lo strumento della loro musica. I cinque si fanno chiamare Les Jeunes Nomades de M’Hamid. L’anno scorso hanno anche registrato e fatto un videoclip con i loro idoli assoluti, i Tinariwen: ce lo mostrano sullo smartphone.
Ogni sabato, raccontano, vanno nel deserto per un paio di giorni a suonare e a cercare ispirazione. Neanche loro vogliono andarsene da M’Hamid, vogliono – dicono – «vivere come gli anziani, senza elettricità, nel deserto». È inutile far notare che senza elettricità non funzionano i telefonini né – soprattutto – le chitarre elettriche. Ma questo è il paradosso di M’Hamid El Ghizlane nel 2017, la sottile linea fra passato e futuro, fra tradizione e necessaria modernità, fra la strada asfaltata e il deserto – e la fonte del fragile fascino di questo pezzo di Marocco.
Il viaggio di Jacopo è stato realizzato in collaborazione con Ente Nazionale per il Turismo del Marocco e Royal Air Maroc. I collaboratori di Lonely Planet non accettano gratuità in cambio di recensioni positive.


