Sulla libertà: intervista ad Alessia Piperno
La riconosco subito nel controluce di Termini: ha una camicia bianca abbottonata fino al collo, i capelli lunghi e lo sguardo lontano. Alessia Piperno mi viene incontro decisa, il fisico scattante avvolto da un piumino grigio e da una coperta pesante, che non si vede ma che l’accompagna ovunque. Mi saluta con un sorriso che arriva qualche secondo in ritardo, poi partiamo per fare ciò che mi aveva promesso al telefono: un giro per Roma.

Il 28 settembre Alessia stava festeggiando il suo trentesimo compleanno, quando è stata arrestata a Teheran, nel contesto delle rivolte che hanno scosso la Repubblica Islamica a seguito della morte di Mahsa Amini per mano dalla polizia morale. Alessia era arrivata nel paese via Pakistan, pronta a visitare il paese zaino in spalla, ma quando sono esplose le proteste i turisti stranieri hanno iniziato a essere visti con diffidenza, cosa che ha portato al suo fermo con sospetto di spionaggio.
Da allora è diventata un titolo di giornale, un volto stampato in prima pagina, un profilo Instagram da seguire in attesa di novità. Per qualcuno è un simbolo di chi cerca la libertà scegliendo una vita nomade. Per altri è una ragazza che “se l’è andata a cercare”. È diventata una figura pubblica suo malgrado e da quando è stata rilasciata, il 10 novembre, ignora gli haters che hanno iniziato a seguire il suo profilo, fa di tutto per non stare sotto i riflettori e si circonda dell’affetto dei suoi cari per cercare, almeno ogni tanto, di portare via la mente da quella cella nella prigione di Evin, dove ha vissuto per un mese e mezzo e dove la conducono a tradimento i ricordi.

Passiamo davanti all’NH Hotel e la storia inizia, letteralmente: è qui che lavorava quando ha deciso che la vita sedentaria non era cosa per lei. Qui vedo per la prima volta la coperta sparire per qualche secondo, mentre il viso le si illumina, soddisfatta di quella decisione che le ha cambiato la vita e che riprenderebbe ancora e ancora.
Ad un certo punto faccio una domanda che mi fa sentire un po’ stupida, una domanda semplice, ma per nulla facile: le chiedo come sta. “Libera. Libera a casa con la mia famiglia, a Roma, nella mia città. Fino a qualche giorno fa non avrei mai creduto di poter passare il Natale con la mia famiglia. Quindi direi libera e fortunata.”
I passi si srotolano per i vicoli di Monti e si portano appresso aneddoti di viaggio, di famiglia, qualche informazione su Roma. Piano piano iniziamo a parlare di Iran, di quello che ho visto io in viaggio, di quello che ha visto lei, in viaggio. Ogni tanto il discorso inciampa nei sanpietrini dei ricordi e in quei momenti sento che ci sono cose che vorrebbe condividere che sono piegate negli angoli della coperta e che resteranno lì ancora per un po’.
Quando arriviamo ai Fori ci sediamo su una panchina mezza rotta, lei gira svelta una sigaretta che fuma piano. A nessuno verrebbe in mente che una di noi qualche settimana fa era rinchiusa in una cella nella prigione più tristemente famosa della Repubblica Islamica. Io stessa quasi non ci credo, mentre Alessia quasi non crede il contrario: di essere qui, libera di scegliere cosa fare, cosa dire, di fumarsi una sigaretta e di rispondere o meno ai genitori che continuano a chiamare per accertarsi che stia bene. Un artista di strada inizia a suonare il sax, poi anche la bellezza dei Fori passa in secondo piano. Davanti a me non ho una vittima, ma una donna coraggiosa e curiosa che ha girato per sette anni il mondo da sola. Parliamo di questo. Di libertà.
A 23 anni hai deciso di partire e non ti sei più fermata. Come mai hai fatto quesa scelta?
Per la noia. Vivevo una vita che non sentivo mia, ero diventata il classico robot che ogni giorno segue lo stesso copione. Uno quando è piccolo non vede l’ora di diventare grande, poi quando è grande dice: “tutto qua?”. Ero triste e tanto annoiata. Avevo solo questo grande sogno di vedere l’Australia e non avevo immaginato di diventare una viaggiatrice, ma quel viaggio mi ha cambiato tanto.

Iscriviti alla nostra newsletter! Per te ogni settimana consigli di viaggio, offerte speciali, storie dal mondo e il 30% di sconto sul tuo primo ordine.
Honduras, Samoa, Pakistan non sono le solite mete: come hai scelto queste destinazioni?
Il fatto che non ne parlasse mai nessuno era ciò che più mi incuriosiva. Volevo sapere che succede in questi paesi, che c’è lì. Questi viaggi fuori dalle rotte battute si sono rivelati i più significativi. Sono le terre che offrono più sorprese ai loro esploratori.
È per questo motivo che sei andata in Pakistan?
Il Pakistan è il mio viaggio del cuore. Qui mi sono sfidata: era il paese che mi spaventava di più al mondo ed è per questo che ci sono andata. Mi metteva paura per quel che ci viene raccontato, ma qualcosa mi diceva che non fosse veramente così. Infatti si è rivelato un paese meraviglioso. I paesaggi più belli della mia vita li ho visti qui, tra le montagne del Himalaya, ai campi base nel Nanga Parbat e del Rakaposhi. Il Pakistan ha una bellezza grezza e unica.
Affittare la moto che poi mi ha portato in giro per due mesi nel paese è stata la chiave di tutto il viaggio. Grazie ai miei piccoli incidenti stradali mi ha portato a fare incontri indimenticabili: sembrava che ogni volta che cadevo dalla moto volesse dire “ok, ora incontrerai una persona davvero speciale”. E così è stato.
Tra i tuoi viaggi c’è anche Samoa, cosa ti ha colpito del paese?
Samoa è bellissima, non ha attrazioni turistiche, ma ti regala i colori. I colori del Pacifico, così, li avevo visti prima solo sugli screensaver di un computer. Non ci sono hotel per turisti e resort stile Maldive. È tutto molto naturale: si dorme in una capanna sulla spiaggia, con un materasso buttato per terra, una zanzariera, non c’è neppure bisogno di una coperta. Te ne stai lì a pieno contatto con la natura. Le persone sono super rilassate, mangiano, dormono sui tappetini: è un modo di vivere molto diverso dall’Asia o dal centro America.
Stavo sull’isola principale di Samoa quando ho visto a distanza un’isoletta, allora ho chiesto a un pescatore cosa ci fosse lì e lui mi disse che ci vivevano circa 400 abitanti e che non c’era nulla di speciale. Gli chiesi di accompagnarmi(sull’isola di Manono) e alla fine si è rivelata la parte più bella del mio viaggio: sono stata ospitata a casa di una famiglia e dal giorno dopo mi sono ritrovata a insegnare in una scuola sull’isola a una classe di bambini dai 6 agli 11 anni. Sono rimasta con loro per due settimane. Insegnare a Samoa non era nei miei piani, ma a volte le cose che non ti aspetti sono anche le più belle.

Tra i viaggi in Centro America qual è il tuo preferito?
L’Honduras. È probabilmente un po’ più pericoloso degli altri: lì devi tenere gli occhi aperti per il rischio di furti e di piccola criminalità. Io personalmente non ho avuto nessun problema, ma è una vibe che si sente.
Nel Parco Nazionale Pico Bonito prendi un sentiero e ti trovi all’improvviso in mezzo alla giungla. Sei circondato da piante selvagge, eppure ti viene da chiederti chi possa aver fatto queste composizioni e messo quel verde proprio vicino a quell’altro creando la bellezza pura. Non è una zona antropizzata, è proprio come Madre Natura l’ha fatta.
In questi viaggi hai mai avuto problemi?
No, io in sei anni di viaggio non ho mai avuto nessun problema, tranne per quest’ultimo “intoppo”. Il mondo non è come ci viene descritto, non esistono posti pericolosi. Esistono persone cattive e persone buone. Però sono sempre stata fortunata e ho sempre incontrato persone che sono poi diventate i mie amici, sparsi nel mondo, e mi hanno sempre fatto sentire una di loro.

Quando dice la parola “intoppo” le scappa una risatina nervosa. Non sarà l’ultima volta che farà riferimento al suo arresto cercando di alleggerire la cosa. E ogni volta il peso rimane tra noi, ma la sua forza fa di tutto per ribadire, soprattutto a se stessa, che è stato un fatto non prevedibile, indipendente da lei e che non sarà questo a impedirle di ripartire.
Che cosa hai imparato viaggiando?
La cosa più bella, è che siamo veramente tutti uguali. Che per quanto possiamo cambiare a livello estetico, siamo veramente tutti uguali. Tutti abbiamo paura di qualcosa, tutti abbiamo qualcosa che ci rende felici, tutti abbiamo quest’amore sconfinato per la nostra famiglia o per la città da cui proveniamo, da cui magari scappiamo ma che poi vuol dire casa. Siamo tutti una grande famiglia senza saperlo.

Ora portaci in Iran. Riesci a ricordarti le tue prime impressioni nel paese?
Sono entrata dal confine via terra con il Pakistan e, nonostante i due paesi siano soltanto separati da un filo spinato, ti sembra di entrare in un altro continente: all’improvviso è tutto ordinato, pulito, non ci sono i rumori assordanti che ci sono in Pakistan, non è un paese dove dici “che casino”. Poi ho iniziato a vedere donne per strada, indumenti stupendi e hijab colorati, mentre in Pakistan le donne non uscivano, restavano in casa. Anche il cibo è più curato, non il riso buttato nel piatto in stile Pakistan. Anche la religione è completamente diversa: io il vero Islam credo di averlo conosciuto in Pakistan, non in Iran.
Penso al mio viaggio in quei luoghi, alla stessa sensazione di essere in un paese diverso da come ci viene raccontato, a tutti gli artisti che ho incontrato, alla vita in casa che è quella vera, e alle costrizioni che aspettano gli iraniani non appena varcano la soglia di casa. Sono sinceramente curiosa di sapere le cose belle che ha visto nel paese, perché sono sicura che sono molte.
Quali sono i luoghi più belli che hai visitato in Iran?
Il Turkmen Sahra, al confine con il Turkmenistan, dove improvvisamente ti trovi in un altro stato: c’è un’altra lingua, le persone hanno lineamenti diversi, gli abiti sono diversi (le donne ad esempio hanno un vestito molto fasciante e indossano un altro tipo di hijab) e poi i paesaggi con le montagne che sembrano disegnate a matita.
Le isole nel Golfo Persico, soprattutto Hormuz: lì ti sembra di essere addirittura su un altro pianeta. In mezz’ora si gira tutta l’isola e ti sembra di visitare una galassia intera, passando tra montagne blu, montagne gialle, la Rainbow Valley (che è una valle di sette colori), poi grotte di sale e colori assurdi su cui batte l’azzurro acceso del mare.
Anche il deserto del Lut: è un deserto dove la sabbia non crea dune, ma veri e propri monumenti delle forme particolari che vengono modellate dal vento e che cambiano costantemente. È meraviglioso.
Tu ti sei trovata in Iran alla vigilia di un cambiamento storico. Si sentiva nell’aria che qualcosa stava per cambiare?
No.
Questo no risuona forte, come se lo avesse ripetuto già più e più volte. Di tanto in tanto si guarda intorno furtiva, scrutando i turisti che ci passano affianco.
Cosa ti ha colpito della società iraniana?
Il fatto che ognuno avesse la propria idea, nonostante non se ne parlasse apertamente e non venisse detta in pubblico. Ognuno ha la propria idea e anche la propria vita segreta, cosa che permette loro di stare bene, divertirsi, restare uniti. L’aria pesante la senti più che altro quando parli direttamente con le persone. Quando le incontri per strada sembra tutto normale, mentre se poi ti soffermi a parlare capisci quanto siano strette le imposizioni: quanto si devono nascondere se hanno un fidanzato, quanto si devono nascondere se vogliono cantare una canzone. Le loro passioni non hanno nessuno sbocco: se sei ballerina puoi prendere lezioni private di danza classica, ma dimenticati di esibirti su un palco. Se ti piace andare in bicicletta e sei donna lasci stare, perché altrimenti gli uomini ti guardano. Il problema non è il velo, la gente non sta protestando per il velo, ma per la libertà. Per poter essere persone normali, come noi italiani, che possiamo cantare, possiamo andare in bicicletta, possiamo andare in strada tenendo per mano il nostro ragazzo. Nulla di sbagliato, ma tutte cose che in Iran al momento non si possono fare.
Nei tuoi post hai parlato delle difficoltà quotidiane che vivono lì le donne, hai vissuto alcune di queste come viaggiatrice?
Sì: al di fuori delle grandi città, dove c’è molta cultura, ho avuto a che fare con tante persone che facevano del tutto per NON aiutarmi. L’Iran è sicuramente il paese che mi ha messo più a dura prova e dove ho avuto più difficoltà, ma non solo a causa della prigione.
Nessuno parlava inglese, quindi le conversazioni erano molto macchinose, in più per tanti di loro una donna con lo zainone e con la tenda non era ben vista. Le conversazioni solitamente erano: “sei sposata?” “No”, “hai figli?” “No”, “e allora perché viaggi da sola?”. Per loro se sei sola deve esserci qualche problema nella tua persona. Non sono abituati a vedere una donna libera. Anche in Pakistan non è un concetto comune, ma là non mi sono sentita giudicata, mentre in Iran sì.

Quando sono iniziate le proteste hai capito cosa stava succedendo?
Le proteste sono iniziate all’improvviso. Io ero al nord, nella città di Rasht, vicino al mar Caspio. Ero andata con degli amici a vedere un castello che si trova in una delle giungle più antiche al mondo, poi al rientro in ostello abbiamo visto un sacco di traffico: tantissime persone hanno iniziato a corre, urlare, a sbattere sui vetri del taxi dicendo di scappare e non capivo bene cosa stesse succedendo. Sta di fatto che poi siamo arrivati in ostello (quando ho scritto il post della bambina che ha disegnato sul mio telefono). Ma lì pensavo fosse una cosa isolata, legata a quel giorno specifico. Invece il giorno successivo la situazione è cambiata drasticamente. Rasht è una cittadina minuscola, il mio ostello stava proprio sulla piazza principale, dove di giorno c’erano tutti i baretti in cui prendere succhi di albaloo (una ciliegia aspra) e gelati, dove i bambini rincorrevano i piccioni: era un posto semplice ma molto bello. Poi, improvvisamente, dal giorno dopo alle 16.00 tutti i negozi chiudevano e sigillavano le entrate con lastre d’acciaio e quello che era il fulcro della cittadina diventava un deserto. A quel punto tutti se ne andavano, io rientravo in ostello e partiva la protesta.
Quando parla delle proteste lo fa con una sincerità disarmante
All’inizio pensavo fosse come quando noi andiamo in piazza, ci sono gli striscioni, i canti. Pensavo fosse tutto lì. Ma quando abbiamo iniziato a sentire gli spari ho capito che non era così. Ci hanno detto di non lasciare l’ostello e così ho fatto.
Come è avvenuto il tuo arresto?
Io, una ragazza iraniana, un ragazzo polacco e uno francese ci siamo spostati da Rasht e siamo tornati a Teheran perché poi da lì ognuno di noi avrebbe preso una strada diversa. Era il giorno del mio compleanno ed era l’ultimo che avremmo trascorso tutti quanti insieme. Mi avevano chiesto cosa avrei voluto fare e ho espresso il desiderio di tornare sulle montagne di Teheran, dove con una seggiovia si raggiungono i 4000 metri. E questo abbiamo fatto: abbiamo passato il pomeriggio a guardare la città dall’alto, a bere chai (tè speziato) e a goderci quegli ultimi momenti insieme. Poi, dopo cena, avevamo organizzato di andare in un’escape room: ci eravamo già stati la sera prima e c’era piaciuto molto perché c’erano molti colpi di scena e anche degli attori. Ci eravamo divertiti molto e abbiamo scelto il tema "guardie e ladri". Dalle montagne abbiamo preso un Uber per raggiungere l’escape room, ma appena siamo scesi dalla macchina e mi sono avviata verso l’entrata, ho visto un omone che bloccava l’ingresso. Sembrava un membro della security, lì per controllare, ma non appena facevo per entrare si metteva davanti a me sbarrandomi il passaggio, senza dire nulla. Allora mi sono girata per guardare i miei amici e chiamare la ragazza iraniana in modo che parlasse con lui, invece ho visto che loro erano tutti bloccati. C’erano quattro macchine, con quattro persone per ogni macchina. Alcuni di loro avevano una Go Pro in fronte e ci riprendevano. Io mi sono messa a ridere come una matta. Nel video del mio arresto rido come una matta perché ero convinta che fosse tutto parte dell’escape room.
Anche la sera precedente era successo un piccolo disguido per cui il gioco era partito prima che noi ce lo aspettassimo. Sembrava un problema tecnico, invece era previsto dalla narrazione. Quindi nelle riprese ridevo, e anche il commissario mi ha chiesto come mai: semplicemente pensavo fosse parte del gioco.
Da quel giorno Alessia è stata rinchiusa nel carcere di Evin, a Teheran, dove è rimasta per un mese e mezzo. Questa prigione è tristemente famosa per essere il luogo in cui vengono detenuti gli oppositori politici ed è internazionalmente nota per le frequenti denunce di violazione dei diritti umani. Le denunce includono pestaggi, molestie sessuali, diniego di cure mediche e varie modalità di tortura. Alessia non vuole parlare di quel che è successo lì, né ci serve saperlo per capire quel che, invece, ci vuole raccontare.
Lì dentro c’erano donne di tutti i tipi, persone che se si fossero incontrate fuori non avrebbero avuto nulla in comune. Eppure, in carcere, c’era un momento in cui qualcuna iniziava a cantare e allora, una per una, ci univamo al coro e per qualche minuto tutta la prigione risuonava dei canti di protesta, a volte di "Bella Ciao" o di altre canzoni iraniane proibite, e in quel momento sapevamo che c’era qualcosa di indelebile tra noi, qualcosa che ci dava il coraggio di fare questo gesto di resistenza.
Tra queste donne c’era Fahimeh Karimi, accusata di aver guidato le proteste nella città di Pakdasht e di aver picchiato un membro dei paramilitari Bassij. Dopo aver diviso la cella con Alessia è stata trasferita nel carcere di Khorin, a Pakdasht ed è attualmente condannata a morte.
Pochi giorni fa hai scritto della tua ex compagna di cella Fahimeh, cosa ricordi di lei?
Il fatto che fosse una donna disperata, e una madre. Guardare lei mi faceva pensare a mia mamma, quindi quando non stava bene e urlava i nomi dei figli io le tenevo la mano, pensando che io e questa donna molto religiosa, proprietaria di un negozio di moda, fuori da lì non ci saremmo mai incrociate, mentre lì condividevamo un dolore che non aveva bisogno di parole. Non abbiamo mai parlato, infatti, a causa della barriera linguistica, ma è la persona a cui più ho pensato da quando sono uscita.
Sicuramente segui le vicende sull’Iran, secondo te cosa succederà? C’è qualcosa che possiamo fare?
Purtroppo non è la nostra protesta di supporto che può salvare quel paese. È brutto da dire, ma ogni paese deve combattere per la propria libertà, come hanno fatto i partigiani per liberare l’Italia dal fascismo. Purtroppo la libertà costa cara e anche oggi, nel 2022, non è scontata. Non parlo di quella di viaggiare, ma di pensiero, di espressione, di seguire le proprie passioni. Una libertà che dovrebbe essere per tutti. Il problema in Iran non sono soltanto le donne che soffrono, ma i limiti che vengono imposti a tutti, anche agli uomini. Io l’ho sempre detto: sono con gli iraniani e sono sicura che questa volta non molleranno finché non saranno liberi.
Ogni viaggio cambia una persona, questo sicuramente ha cambiato te, ma ha cambiato anche il tuo rapporto con il viaggio?
No, assolutamente. Quello che è successo a me poteva succedere a qualunque altra turista che si fosse trovata lì in quel momento. In sei anni di viaggio mi è sempre andato tutto bene, Questa cosa era imprevedibile, mi è successa, ma non cambierà minimamente il mio modo di viaggiare e di approcciarmi al mondo. Era qualcosa più grande di me, che non dipendeva da me, e non cambierà la persona che sono quando viaggio.
Quindi ripartirai, e dove andrai?
Sempre in posti di cui nessuno parla, posti pieni di segreti che meritano di essere scoperti.
Dei gabbiani litigano per un panino al salame, ci rendiamo conto di avere fame e scegliamo un ristorante indiano tra i vicoli. Scegliere, qualcosa che Alessia non dà più per scontato.