Se Robert Louis Stevenson avesse adocchiato Samoa un po’ prima, non si sarebbe fermato tanto a lungo nelle umide zone di montagna. Le isole sono così idilliache da sembrare quasi la versione fumettistica del rifugio ideale dello scrittore, fatto di spiagge orlate di palme, onde spumose in quantità, e lussureggianti foreste tropicali intrecciate sullo sfondo di un velo di nuvole. Ce n’è abbastanza per far venire un infarto a qualsiasi scenografo hollywoodiano in cerca della location ideale per un film. E poi c’è la vita di spiaggia dove il tempo è un concetto vago e il ritmo è così rilassato che può essere confuso con una sorta di stato comatoso. Ma la storia di Samoa non è sempre stata così tranquilla. Per anni le isole hanno ricevuto la visita di navi commerciali portatrici di malanni, massacri e sfruttamento; sono state rifugio per le peggiori canaglie dei mari: ex balenieri, galeotti in fuga, loschi commercianti, marinai dipsomani e pirati in pensione; sono state contese dalle arroganti potenze europee alla ricerca di punti d’appoggio nell’arena del Pacifico e hanno sofferto della presenza dei missionari che vi hanno importato la Bibbia e l’idea di dannazione eterna. Che la natura solare e accomodante degli abitanti di Samoa sia sopravvissuta a tutto questo è la dimostrazione che l’ottimismo trionfa su qualunque esperienza.

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