Il mio percorso di guarigione in Malaysia dopo che il COVID si è portato via i miei genitori
Un anno fa lo scrittore di viaggio Marco Ferrarese si trovava in Perù per lavoro quando ha scoperto che i genitori in Italia avevano contratto il COVID. Sono morti a tre giorni di distanza l'una dall'altro. Ecco il racconto di come ha trascorso gli ultimi 12 mesi elaborando il lutto dall'altra parte del mondo, adattandosi a una nuova vita senza viaggi e trovando conforto esplorando il nuovo paese d’adozione, la Malaysia.
A un anno dal primo lockdown, il mio rimpianto più grande non è non poter fare tutti i viaggi che ero solito fare. Prima che l’industria del turismo subisse una battuta d’arresto totale, mi ero costruito una carriera da scrittore e reporter di viaggio per alcune delle pubblicazioni più importanti al mondo e, grazie al mio lavoro, ero sempre in giro per l’Asia e per il Sud America.
Ma la corona di spine che avvolge la mia mente non è arrivata con il sabotaggio improvviso della carriera dei miei sogni. Il vero rimpianto è non essere riuscito a tornare nel mio paese d’origine, l’Italia, per assistere al funerale dei miei genitori. E che ci crediate o meno, a un anno di distanza non sono ancora mai andato al cimitero dove si trovano le loro lapidi.
Non è una decisione facile: le restrizioni e la burocrazia non mi permettono di prendere un volo per l’Europa e quindi fare ritorno in Malaysia, un luogo dove adesso sento di appartenere, non è stato un capriccio. In più, dopo la perdita, mi sembra che lasciare questa nuova casa dove ho trovato un po’ di sollievo e dove il COVID non ha mietuto vittime come in altri paesi del mondo, sarebbe tanto folle quanto scegliere di tornare nel posto dove l’incubo è iniziato.
Le mie idi di marzo 2020
Un anno fa, mia mamma Tundra aveva 69 anni e mio papà Maurizio 72. Sono morti molto velocemente, considerata l’età non giurassica e le loro condizioni di salute stabili, ma il COVID colpisce in modo strano. Ci pensavo proprio oggi a quanto fosse assurdo mentre accendevo dei bastoncini di incenso accanto al leone di pietra di guardia all’ingresso di un tempio cinese.
Mia mamma è salita in cielo il 20 marzo dopo aver lottato contro il virus in un reparto di ospedale sovraffollato e mio papà l’ha seguita pochi giorni dopo, il 23. Non erano fatti per stare separati. In Perù, bloccato dal lavoro, mi sono sentito come in un film horror, di quelli che danno in un cinema dimenticato di provincia che puzza di polvere e di popcorn stantii. Una morte proiettata in contemporanea su due sale, di quelle da cavarsi gli occhi dalle orbite o che ti riducono a pezzi il cuore con una motosega che ti ronza proprio all’altezza del petto.
Non incolpo loro o le circostanze legate al lavoro. A marzo 2020 in nord Italia era molto facile ammalarsi e morire di COVID: gli ospedali erano pieni di pazienti e cadaveri, hanno dovuto impiegare i camion dell’esercito per portarli via perché non c’era più posto per i corpi. Per colpa del destino mi trovavo lontano da loro, ma così era stato anche negli ultimi dieci anni mentre mi costruivo una nuova vita da scrittore in Malaysia con mia moglie Kit Yeng. Tutti i voli erano bloccati, i militari pattugliavano le strade, alle persone e alle auto non era consentito circolare. Nell’alto Perù, la pioggia si alternava al sole scottante delle Ande, come se anche la natura volesse piangere con me e poi consolarmi in qualche modo per la dolorosa perdita.
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Non auguro a nessuno di provare la sensazione di essere bloccati in un paese straniero, consapevole di non poter fare niente contro qualcosa che è già successo. Quando ti senti trafitto nel petto da un pugnale però, non vuoi rimanere lì impalato ad aspettare di morire mentre il sangue sgorga inarrestabile. Vuoi raggiungere il pronto soccorso più vicino per farti mettere i punti di sutura. La Malaysia mi sembrava quel pronto soccorso e così abbiamo deciso di partire, con o senza la benedizione dei parenti e amici in Italia.
Salvare me stesso
Da un anno, vedo dalla porta della mia casa in Malaysia l’orizzonte equatoriale tingersi con le sfumature violacee dell’alba. Lo sfrontato koel, un uccello Malaysiano, cinguetta con il suo bizzarro verso, un mix tra il canto del cuculo e un ululato, ed è sempre lì a ricordarmi che i problemi dell’uomo non interessano alla natura.
Dal mio ritorno in Malaysia a maggio 2020, mi sono volontariamente isolato dalle notizie dei tg, dalle guerre infinite dei social in cui i più o meno istruiti dibattono sulle bufale che girano attorno al COVID, dall’andamento dei prezzi delle mascherine, dai rimedi della nonna e dalle varie teorie post-apocalittiche.
Ho osservato gli "influencer" di viaggio più in voga cadere dalle loro torri d’avorio costruite su un’illusione alimentata dai social e correre in giro come galline impazzite. Tuttavia, per quanto duramente ci provassi, seguire il richiamo del koel ad abbandonarsi alla calma interiore presentava degli intoppi.
"Devi tornare, ci sono delle faccende da sistemare, la casa, tutta la tua roba, hai delle responsabilità." Ho un fratello maggiore in Italia e questo era uno dei tipici mantra che mi ripeteva da quando, ahinoi, eravamo diventati orfani. Ulteriormente affaticati dal fardello dei lockdown, i meccanismi della burocrazia italiana, già di per sé letargica, hanno progressivamente inasprito i nostri rapporti. Quell’addio pende tutt’ora sulla mia testa come una spada di Damocle.
Chiamatemi pure codardo ed egoista, non mi importa: volevo risparmiarmi un’ulteriore sofferenza, non avrebbe avuto senso. In breve tempo, privati delle nostre avventure in posti remoti, io e mia moglie Kit Yeng abbiamo deciso che se dovevamo rimanere bloccati sull’isola di Penang, la nostra casa nella Malaysia occidentale, tanto valeva cercare di trarre il meglio dalla situazione. Per fortuna, il paese non ha subito restrizioni ferree fino a dicembre, quando, a causa del turismo domestico, il numero dei contagi è aumentato da cento a cinque mila infettati al giorno ed è stato necessario dichiarare un secondo lockdown.
Fuga in collina
La mia seconda casa è a Penang, destinazione multiculturale patrimonio UNESCO famosa per avere una tra le cucine più buone di tutta l’Asia, per ospitare numerosi festival e per la street art che ha ravvivato la scena culturale fino a farla diventare tra le più vivace del Sudest asiatico.
In pochi sanno però, che Penang Hill, dietro la facciata turistica piena di lasciti dell’Impero coloniale britannico, nasconde moltissimi percorsi di trekking che si snodano come corridoi verdi dal centro dell’isola fino agli estremi settentrionale e sudoccidentale.
"C’è ancora così tanto da esplorare qui", ho detto a mia moglie. Anche lei ha convenuto che negli ultimi dieci anni di viaggi all’estero ci stessimo perdendo tutte le bellezze che ci circondavano a pochi passi da casa e che questa missione potesse migliorare la nostra quotidianità, per cui ogni giorno abbiamo reso ogni pasto o ogni sessione di scrittura divertenti, così come le serate costretti in casa dal lockdown a guardare un bel film. Nell’arco di qualche mese poi, abbiamo camminato per centinaia di kilometri in giro per l’isola.
L’impossibilità di viaggiare entro lungo o breve raggio avrebbe potuto rovinare la mia carriera ma io non ho permesso che succedesse. Una volta un mio amico giornalista con cui aveva passato un periodo di tempo in Asia mi ha detto: "Se non hai niente da scrivere durante una crisi globale, allora non ti meriti l’appellativo di scrittore". Queste parole mi hanno rinfrancato lo spirito.
Dal suo punto di vista, tutto si può ricondurre alla visione darwiniana del "solo i più forti sopravvivono". Basta lamentarsi, adattati alle nuove circostanze e vai avanti. Mi sono guardato intorno alla ricerca di ispirazione, battendo tutti i campi così come il COVID stava battendo qualsiasi paese. Era il momento perfetto per scrivere di musica e di cinema, due altre mie passioni, dato che tutti erano obbligati, stando a casa, a cercare una qualche fonte d’intrattenimento. All’improvviso, anche i lati meno instagrammabili dei miei viaggi sembravano spunti interessanti per un pezzo giornalistico. Così mi sono messo a scrivere. Ho scritto come un fiume in piena. Ho scritto molto di più rispetto a quanto avessi fatto l’anno prima.
Accettare il ciclo della vita
Mi piace pensare che il colpo di fortuna non sia stato solo frutto della mia determinazione. Ad essere onesti, non ho mai sognato i miei genitori, ma a volte li ho incontrati in quel momento in cui il sogno finisce e inizi a svegliarti. Mia madre è un fantasma acrobata: fa una capriola dalla finestra raggiungendo il centro della stanza, librandosi a mezz’aria per poi tuffarsi con il suo volto etereo dentro la mia fronte. Come se io fossi un bacino d’acqua e lei il cervo giunto ad abbeverarsi.
Con aria interrogativa, scruta dentro il mio cranio per assicurarsi che nella mia mente sia tutto in ordine. Come quando era in vita, mio padre è più distaccato ma pur sempre un guardiano molto vigile: ci guarda anche lui sospeso a mezz’aria, accanto al davanzale. I fantasmi rivestono un ruolo importante nella vita dei Malaysiani, ma tutti ti sconsigliano di parlarne troppo, persino alla moglie. Dopotutto, la morte è il crepuscolo della vita e, secondo molta gente, la fine di un lungo ciclo di reincarnazioni.
Non so dove si trovino adesso o in cosa si siano trasformati, ma penso che Tundra e Maurizio siano in un posto migliore. E grazie al koel e al suo buffo canto, ogni giorno mi ricordo di quanto sia stato fortunato a essere finito qui, nonostante tutto.