Cosa significa essere nomadi digitali durante il coronavirus
Lauren Keith, scrittrice di viaggio e nomade digitale, condivide la sua esperienza durante la pandemia coronavirus e cosa significhi un provvedimento che costringe a “restare a casa” quando non hai un posto che puoi chiamare casa.
"Nessun posto è come casa propria"
Venendo dal Kansas, so a memoria gran parte del Mago di Oz, in qualche modo ancora il riferimento culturale principale per il mio stato. Ma alla luce degli eventi della pandemia coronavirus, questa frase ha una nuova inquietante profondità. Nessun posto è come casa propria, ma cosa succede se non ne hai una, specialmente se i confini dei Paesi si stanno chiudendo tutto intorno a te? Lo scorso settembre ho deciso di diventare una nomade digitale, lasciandomi alle spalle quasi un decennio di vita a Londra e tutti gli amici, pub e possedimenti mondani che comportava. (Confessione: avevo un paio di scarpette rosse prima di vendere o dar via quasi tutto quello che possedevo). Per più di sei mesi sono stata in viaggio quasi costantemente, dall’Arabia Saudita a Samarcanda fino a San Diego, fermandomi a Londra per poco più del tempo di rifare le valigie per l’avventura successiva.
Mentre sia il Dipartimento di stato americano sia l’Ufficio per gli affari esteri e del Commonwealth del Regno Unito avvertivano i propri cittadini di tornare a casa immediatamente, amici preoccupati che aggiornavano diligentemente tutti i loro social media con l’hashtag #stayathome hanno cominciato a dirmi che era venuto il momento di concludere i miei viaggi e tornare a casa. “Ma dov’è casa mia?” ribattevo. “Dove dovrei ‘tornare’?”. Migliaia di nomadi digitali e viaggiatori come me sono in giro on the road, senza casa per scelta e senza alcun posto in cui tornare. Mi rendo conto che vivo una situazione estremamente privilegiata: ho scelto io di rinunciare alla mia dimora fissa mentre moltissimi altri si trovano costretti a lasciarla, un altro peso da aggiungere al carico ingente che devono sopportare, soprattutto in tempi come questi.
Le poche possibilità di fronte a me sembravano tutte impossibili a modo loro. Dovrei ridurmi in bancarotta a Londra, una città che adoro ma che divorerebbe in un instante le magre entrate di una scrittrice di viaggi freelance? Dovrei tornare negli USA dove la mia famiglia mi aprirebbe le porte di casa ma dove sarei senza un’assicurazione sanitaria in un paese famoso per le sue cure mediche straordinariamente costose? Oppure dovrei proseguire i miei viaggi fino a quando sembra fattibile? Se solo la decisione fosse facile come sbattere i tacchi delle scarpette.
Attenermi ai miei programmi originari – prima che entrambi i miei paesi d’origine richiamassero i loro viaggiatori – sembrava la scelta migliore a livello economico e logistico. Sono specializzata nello scrivere sul Medio Oriente e il Nord Africa, avevo programmato due mesi incredibili in Turchia, Tunisia e Lebano, ma non avevo prenotato molto, per fortuna con il senno di poi.
A metà marzo ho preso un volo da Londra alla Cappadocia, mistica in ogni momento ma particolarmente surreale adesso. Mancavano ancora due mesi alla stagione turistica, quindi il centro principale per i visitatori, Göreme, era ancora quasi in letargo, ulteriormente nascosto da un velo di neve come povere magica sui camini di fata. Ho osservato mentre la Turchia vietava i voli per l’Europa e il continente iniziava a chiudere i confini.
Scorrendo le notizie per ore e ore nella mia nuova routine quotidiana, ho letto che i voli tra la Turchia e il Regno Unito sono stati cancellati il 17 marzo alle otto. Era il 17 marzo. Ho guardato l’orologio. Le dieci. Bhe, è già deciso. Qualche ora dopo l’hotel mi informa che sono l’unica ospite quindi la colazione mi verrà servita in camera il giorno dopo.
Salgo su un taxi per esplorare le straordinarie vallate remote della Cappadocia. La macchina puzza leggermente di alcol o kolonya, un profumo con l’80% di alcol che sta ritornando in voga come disinfettante. L’autista mi offre uno spray mentre il veicolo sfreccia sulle strade deserte coperte di neve. Iniziamo a parlare della situazione mondiale, e definisce la stagione turistica imminente come “arrivata morta”, finita prima di cominciare. Mi fa uscire per passeggiare tra un’antica città sotterranea e monasteri scavati nella roccia e oltre alle piccionaie dipinte, non si vedeva nessun all'orizzonte. Sembrava la fine del mondo.
Qualche giorno dopo ho preso un volo per Instanbul dopo essermi goduta un’ultima colazione in hotel, con come colonna sonora un canale televisivo per il karaoke in cui una giovane cantante cantava “We can’t go back to the way we used to…” (non possiamo tornare a com’era prima).Pensavo che è meglio essere in una grande città se le cose dovessero andare veramente storte; un volo di rimpatrio partirebbe da lì e ho bisogno di una cucina in caso di lockdown. Adesso, mi sono sistemata in un Airbnb nel quartiere di Beyoğlu e il proseguimento del viaggio ha subito una battuta d’arresto. Sto facendo scorta di generi alimentari in un paese dove non capisco la lingua. Ho comprato latte, yogurt o panna acida? Immagino che non lo scoprirò fino quando non lo verso nel mio tè mattutino.
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Istanbul non mi è completamente estranea, grazie ai viaggi qui nel 2014 e 2017, quindi sto cercando di vedere questa lunga sosta come una visita triennale. Ho fatto una passeggiata nel weekend lungo İstiklal St, che solitamente conta un milione di persone al giorno, adesso però sembra una domenica mattina presto prima che aprano i negozi. Non ero l’unica fuori; il tram antico procede lentamente nel mezzo della strada, sebbene spesso senza nessuno a bordo e qualche venditore annoiato siede dietro i carrelli rosso fuoco pieni di caldarroste e simit (ciambelle di pane croccanti).
A volte, questa vita in lockdown non è troppo diversa dalla normale esistenza di un nomade digitale: lavoro dovunque mi trovi (chiaramente mi manca fare giri per i bar di quartiere) e dipendo moltissimo da internet per darmi un senso di normalità, da Skype con gli amici e la famiglia, fino a scaricare libri su Kindle e Audible, fino a praticare yoga con il mio istruttore preferito a Londra tramite una app. Il problema principale che dovrò affrontare sarà tra qualche settimana: se il lavoro da freelance diminuisce, per quanto sarò in grado di mantenermi? Cosa succederà quando scade il mio visto turistico da 90 giorni ma il mondo è ancora chiuso?
Per ora, non ha senso preoccuparsi per questi problemi. Le regole di ogni paese cambiano ogni ora e nessuno sa come sarà il mondo domani, figurati tra otto settimane.
Per cui anche in un momento come questo, nessun posto al mondo è come casa propria. Casa mia è ovunque mi trovi in questo momento.