Diario barocco della mia paura del Barocco

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In volo saltiamo uno stretto schiviamo un vulcano e atterriamo in Sicilia, nello spigolo sud dell’isola. Vista su una mappa fisica come dal finestrino di un 737, questa zona mi era parsa un pattern di colli e boscaglie puntellato da borghi color oro: dall’alto, le Terra Barocca è fatta di semplici ottaedri di laterizio incastonati tra i valloni come sale sparso sulla carta geografica – tra i Monti Iblei e il mar Mediterraneo. Ad altezza-persona i tanti saliscendi hanno poi rivelato in forma di sudore l’inganno della cartografia, che nasconde dietro a sfumature imprecise e fuorvianti un concetto tanto semplice come il dislivello. All’ultimo punto panoramico da conquistare a suon di gradini, siamo stremati. Ma felici.

Ragusa Ibla © Luigi Farrauto/Lonely Planet Italia
Ragusa Ibla © Luigi Farrauto/Lonely Planet Italia
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Siamo di nuovo a Ragusa, dove tutto è cominciato. In paese avevo sentito dire che, vista dall’alto, la sua forma assomiglia a quella di un pesce: lo proverebbe una mappa ottocentesca. Uno di quegli schemi schizzati a china sul retro di testi bene incolonnati – l’inchiostro che trapassa le pagine – in cui Ragusa è definita proprio in forma piscis, e chi sono io per non crederci. Il drone, comunque, ha appena fugato ogni dubbio. Ora, all’alba del quinto giorno di viaggio, planando dal Belvedere di Santa Maria delle Scale.

Per dovere di reportage occorre un passo indietro. Riavvolgere il nastro al giorno quattro del nostro viaggio in Terra Barocca, fino a quando ci è chiaro una volta per tutte che quel nome è sineddoche, singolare per il plurale: nasconde una rete di borghi medievali e ruggenti spiagge sabbiose, tutte libere; patrimoni Unesco e graffiti, un parco archeologico dentro un canyon, castelli col labirinto e chilometri di sentieri. Qui citare il cibo è quasi banale – in fondo ce lo eravamo detti già dal giorno uno: non esageriamo coi cliché, citiamo certamente mascheroni e putti, però non dimentichiamo che c’è ben altro, non solo Barocco e cioccolato, hashtag guardiamo oltre.

Ispica © Luigi Farrauto/Lonely Planet Italia
Ispica © Luigi Farrauto/Lonely Planet Italia

Era evidente dal giorno zero, poi, che confessare: "perdonatemi ma ve lo devo dire, io il Barocco non lo sopporto" sarebbe stato come gridare "Odio il Natale" alla cena della Vigilia coi parenti; però è così, non ho mai amato le glassature e i fronzoli dell’architettura che porta quel nome. E ho dovuto tacere l’intolleranza acuta al cioccolato, per non parlare del fatto che Vigata l’ho dovuta cercare su Google in panico, per poi esclamare "Ah la serie su Montalbano"; alla domanda "Cosa ci fai qui?" mi rispondo di essere qui per questo; per ricredermi, una terapia d’urto – ché viaggiare fa bene. L’altra sera al tavolino di un bar una signora saggia mi ha sbiancato con un In ‘sta vita tutto è enantiodromia – unione di enantios, l’opposto e dromos, la corsa – la corsa degli opposti, è tutto un ballo insomma. Tipo danzatori di Matisse, mano nella mano coi tuoi dubbi. Spengo la sindrome dell’impostore col pesce grigliato e un tiramisù decomposto, seduto comodo nel cortile interno di un ristorante di Ragusa Superiore. E mi preparo a una doccia di Barocco.

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Ragusa Ibla, Duomo di San Giorgio © Luigi Farrauto/Lonely Planet Italia
Ragusa Ibla, Duomo di San Giorgio © Luigi Farrauto/Lonely Planet Italia

La cattedrale di San Giovanni Battista, a Ragusa, è la mia prima prova del fuoco: spunta enorme su Corso Italia appoggiata a un sagrato soprelevato, che obbliga a inclinare il mento per vedere la cima del campanile superare i cinquanta metri. È una chiesa ottocentesca. Ai tempi il Barocco era molto più che tardo, aveva perso voce squillante ed esuberanza, e infatti la facciata non mi spara addosso una scenografica antologia di stucchi e statue montate a neve, ma ci va piano con le decorazioni, accomoda con morbide linee ricurve e colonne corinzie, imposta un campanile dalle forme squadrate che interrompe la sinfonia. Forse aveva ragione Giovanni del GAL, che con quel nome da Cavaliere della Tavola Rotonda non poteva mentire nel dirmi Vedrai il Barocco nostro è diverso.

Fino a qui tutto bene. Azzardo un mi piace. Scendiamo a Ibla, verso il Duomo di San Giorgio: sorge in cima a una scalinata obliqua e riporta all’ordine con una simmetria questa volta spiccante, che esplode a cuspide, e disegna volute a esse che ricordano ghirigori a penna; qui sì che si parla un Barocco madrelingua, ma con un accento tutto siculo. I tre ordini orizzontali dell’edificio scalano in complessità e culminano con una torre indecifrabile ad altezza-persona: metafora dell’avvicinarsi al divino, paura dell’ignoto e ingegno assieme. Enantiodromia anche questa, chissà. San Giorgio è una delle due Chiese Madri di Ragusa, per alcuni quella più ammantata di sacralità. Una chiesa dai lineamenti sinuosi, come se un vento dal basso avesse fatto svolazzare la sua gonna di pietra. Vista da lontano, la sua forma ricorda gli ingrandimenti fatti al microscopio, geometrie ondulate riflesse a specchio dove ci si perde sia nell’insieme sia nei dettagli.

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Mi sposto verso Palazzo Bertini e spuntano i primi mascheroni: tre facce scolpite che pendono dalle chiavi di volta degli archi degli antichi ingressi; le loro smorfie mostruose mi ricordano i miei tentativi di selfie. Qui li chiamano il mercante, il nobile signore e il poveraccio. Anche questo è Barocco eppure non mi annoda gli occhi, anzi, è piacevole, mi mette a mio agio, mi stimola a interagire con lo spazio urbano.

I mascheroni di Scicli © Giulia Grimaldi/Lonely Planet Italia
I mascheroni di Scicli © Giulia Grimaldi/Lonely Planet Italia

I mascheroni li avrei rivisti al Palazzo Beneventano di Scicli, al giorno due del mio viaggio in Terra Barocca, brutti ceffi a sorreggere porte finestre balconi in ferro battuto, grottesche mimesi in pietra di mori leoni e pirati dai nasi prominenti e le labbra storte. L’intonaco oro del palazzo bilancia in sobrietà quelle smorfie e si presta a scatti perfetti, anche se controluce. Sono quattro secoli che il Barocco esiste per turbare, sosteneva la signora al bar. A Scicli il Barocco è leitmotiv costante, ma è un sottofondo che non disturba, una musica diffusa gentilmente.

Nel 1693 questa terra fu colpita da un terremoto terrificante. Fu proprio in risposta alla catastrofe che i centri storici vennero subito ricostruiti, e dalle ceneri della distruzione si levarono le menti infuocate degli architetti che, chiamati a ripensare le città, usarono proprio il Barocco come segno per incidere nell’architettura un ideale di rinascita, un inno alla vita, uno sberleffo alla sua precaria messinscena. Un Barocco poliglotta, influenzato tanto dalle forme del mondo classico, quanto da quelle più spagnoleggianti della Sicilia settecentesca.

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Un angolo di Barocco a Modica © Giulia Grimaldi/Lonely Planet Italia
Un angolo di Barocco a Modica © Giulia Grimaldi/Lonely Planet Italia

A Modica ci arriviamo già al giorno tre, dritti lungo Corso Umberto, col Duomo di San Pietro annunciato dalle statue dei dodici apostoli sparsi sulla scalinata. I palazzi che affacciano del corso ci regalano altri mascheroni, santi e demoni da osservare per sentirsi osservati. Chiedo a Giovanni del GAL il significato di queste sculture così scenografiche, mi risponde Simboli apotropaici, allontanavano la sfortuna – e sono sempre più confuso sulla sua identità, politico locale o messaggero di un verbo antico – il nipote di Letta o di Indiana Jones? Quando scopro che GAL è acronimo di Gruppo di Azione Locale, un partenariato che si occupa di sviluppo del territorio, spengo Il nome della rosa e ritorno alla realtà.

Saliamo verso il Duomo di San Giorgio col sole che sembra vendicarsi della crisi climatica su di noi in particolare, e ci arriviamo dopo un climax di 164 gradini – che separano la strada dalla chiesa, il profano dal sacro, il venditore di capperi nocciole e aglio secco dalle cinque navate scandite da capitelli corinzi della chiesa – e sui quali la vera difficoltà è resistere alle continue tentazioni di voltarsi per bere un sorso di quel panorama Barocco, e scattare le solite due trecento foto – e a forza di 2 gradini in su e 1 in giù, il rischio è rendere la scalinata una messinscena del paradosso di Achille e la tartaruga. Però alla balconata di fronte al sagrato del duomo occorre fermarsi. Qui le buganvillee aggiungono gocce di rosa e verde a quel quadro in tinte mattone che è la Terra Barocca – e lo sguardo si perde in avanti oltre petali e foglie, oltre Modica, oltre i tetti, i ponti e le boscaglie.

Sui tetti di Ragusa Ibla © Luigi Farrauto/Lonely Planet Italia
Sui tetti di Ragusa Ibla © Luigi Farrauto/Lonely Planet Italia
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Con lo zaino pieno di confezioni di capperi nocciole e aglio secco saliamo ancora, in cima al Castello dei Conti, un vecchio complesso difensivo della città. Qui la veduta è a treesessanta. E se è vero che siamo attratti dalle mappe perché quella prospettiva aerea ci avvicina allo sguardo di un dio, i panorami sono un’esperienza che vivo ogni volta come vagamente divina, la mia più riuscita forma di spiritualità. Da quassù la città è inedita, pare vista di spalle, presa alla sprovvista. Delle chiese spiccano absidi e transetti anziché portali decorati. Il frontone di San Pietro è disadorno, niente santi a salutarci con gli occhi, però dall’alto si può seguire la forma dell’edificio, leggerne le navate, ci si può concentrare sullo spazio che occupa nel tessuto urbano, un intonaco ton sur ton che da qui rivela anche note di mattoni nudi disposti nel solito zigzag. Modica dall’alto ci parla della sua anima medievale, un centro urbano solcato da saliscendi come le lische di un pesce dalle tante spine dorsali. Forse anche Modica è in forma piscis, a modo suo. E quando all’alba il paese si accende lento e si spengono le luci dei lampioni, ecco che ogni belvedere è quello buono per giocare a vedere il mondo con gli occhi di una divinità: qui a Modica come a Santa Maria delle Scale, a Scicli come a Ispica – o su una terrazza di Punta Secca –, per una mezz’ora imbambolati ad ammirare l’orizzonte dall’alto al basso, col sonno che ci deforma il viso come nelle chiavi di volta dei palazzi barocchi. Noi torniamo a Ragusa, per svegliarci lì prima che venga l’alba.

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