Trekking al Mardi Himal con vista sul Machapuchare: storie di picchi proibiti e cani coraggiosi
Tata, nepalese, corpo asciutto e fermo, occhi saettanti, in uno dei suoi rari momenti di loquacità mi traccia il contorno di una verità sottile e precisa sul cosa spinga gli alpinisti a sfidare una montagna. Ha appena finito di riattizzare il fuoco della stufa, e per un attimo la stanza della sua teahouse si illumina, rivelando attraverso l’aria stopposa di fumo il movimento di un solo angolo di bocca, fra zigomi larghi e abbronzati. “Per avere una storia da raccontare”, dice.

Siamo stretti in una solida e accogliente baracca a 3200 metri, nella regione dell’Annapurna. Sulla nostra stessa cresta corre il Mardi Himal, il sentiero per la base di una delle montagne più belle del Nepal e del mondo intero. Quasi settemila metri di roccia e neve, una massa perfettamente piramidale che appena sotto la cima si biforca in una forma inequivocabile, ad oggi nessun uomo ha mai scalato la vetta del Machapuchare (“coda di pesce”), a cui i nepalesi si riferiscono come “the Virgin Mountain”.

Machapuchare: la storia della montagna sacra
Schiacciato sulla regione Himalayana tra India e Cina, dopo aver lottato per secoli per sopravvivere fra i due giganti asiatici - prima chiudendosi ermeticamente, poi aprendosi a ogni tipo di turismo dalla prima metà degli anni’50 - di recente il Nepal è entrato a far parte del nostro immaginario ancor più da vicino, da quando due registi belgi hanno incantato gli Italiani con Le Otto Montagne, l’adattamento cinematografico per l’omonimo romanzo del milanese Paolo Cognetti, premio Strega 2017. Il trekking e l’alpinismo sono le maggiori attrattive che il paese ha da offrire, come testimoniano i centri cittadini di Kathmandu e Pokhara, saturi di centinaia di negozi-fotocopia, ognuno stipato di qualsiasi armamentario possibile per un’escursione.
D’altronde, il possibile richiamo di una vaga idea di spiritualità si perde non appena si mette il naso fuori dall’aeroporto internazionale di Tribuvhan, soffocato fra gli iced latte del quartiere turistico di Thamel, e le migliaia di prodotti North Face contraffatti di cui trabocca ogni angolo della città.
Anch’io, come tutti, sono qui per le montagne. Eppure, nonostante in Nepal si trovino otto delle dieci vette più alte della terra, non sono stato attirato da nessuna di quelle, né dalla regione dell’Everest: troppi gli articoli che riportano di ottomila sovraffollati, di scalatori costretti a una gimcana tra cadaveri e bombole vuote.
No, è stato altro ad aver conquistato la mia curiosità: la foto di una vetta magnifica, due guglie gemelle intrecciate l’una nell’altra in una spirale bifida di rocce e neve. La curiosità si è fatta studio quando dopo qualche breve ricerca ho scoperto come quel profilo appartenesse a una montagna, Machapuchare, la cui storia è irresistibile: nel paese che ha reso affollata la cima del mondo, quel picco sacro ai Nepalesi resta precluso a chiunque voglia scalarlo.

L’unico tentativo ufficiale risale al 1957, quando una spedizione guidata dal tenente colonnello e alpinista britannico James Owen ‘Jimmy’ Roberts si è fermata a pochi metri dalla vetta, per maltempo. Nel resoconto dell’alpinista Wilfrid Noyce (Climbing the Fish’s Tail, 1958) si racconta di come per Roberts Machapuchare fosse sempre stata “l’ideale di una montagna, un possesso personale eppure fuori da questo mondo”, fin da quando ne aveva letto per la prima volta in un dispaccio di un ufficiale britannico. In quel messaggio si descrivevano Machapuchare, la sottostante città di Pokhara e la popolazione Gurung, con cui Roberts avrebbe poi stretto un rapporto molto profondo.
Dopo più di vent’anni in cui la montagna aveva dominato le mire di Roberts, da quando il Nepal della dinastia Rana era ancora un regime serrato e inaccessibile a qualsiasi forestiero, il suo sogno di prenderne la vetta era stato vanificato a pochi metri dall’obiettivo. Eppure, anziché riorganizzare le proprie forze per un nuovo tentativo, quello che passerà alla storia come “il padre del trekking” in Nepal (avrebbe poi fondato la prima agenzia di trekking del paese, Mountain Travel, nel 1964) prese una decisione unica. Essendo Machapuchare sacra alla popolazione locale, che non avrebbe visto di buon occhio l’avvicendarsi di spedizioni di forestieri sulla sua cima, in nome della sua crescente amicizia con i Gurung Roberts decise di chiedere al governo nepalese di proibirne l’accesso. Da allora, nessuno ha più tentato di prenderne la cima.
Insieme a queste informazioni, nel mio studio della montagna mi ero imbattuto sul Mardi Himal, un trekking neanche adolescente: inaugurato dieci anni fa, il suo percorso conduce sino a 4500 metri, esattamente di fronte al mio picco proibito. Il miglior compromesso possibile per riuscire ad ammirare Machapuchare senza violare il terreno sacro ai Gurung. La decisione è stata facile.
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La salita al Mardi Himal
La partenza della salita si raggiunge con un’ora di bus locale dalla città Pokhara, tra scossoni, buche, strade sconnesse e tornanti ripidi e stretti. Il sentiero, percorribile in quattro giorni di buon cammino, mi ha condotto attraverso boschi di rododendri, teahouses (rifugi nepalesi) aggrappati su creste con viste mozzafiato sui villaggi e le risaie più a valle, su cui torreggia l’imponente catena dell’Annapurna.
Nonostante la fatica crescente dovuta all’altitudine e al dislivello, il sentiero è piuttosto agevole e sgombro, così è andato tutto liscio fino all’ultimo tratto, quando una bufera piuttosto puntuale per un dicembre dell’Himalaya mi ha costretto a tornare all’ultimo campo prima della “cima”. Wow, proprio come Roberts e la sua cricca.
Durante la seconda sera nell’ultimo campo prima della vetta, mentre ripenso a Tata, qualche centinaio di metri più in basso, probabilmente intento ancora una volta ad attizzare il fuoco della sua teahouse. Mi rendo conto che anche “Per avere una storia da raccontare” non basta. Perché qualcuno dovrebbe assediare vette spietate, inseguire luoghi pressoché inaccessibili spesso nascosti su altri versanti del mondo, ascendere chilometri di roccia, neve e ghiaccio, e ogni giorno della scalata sgranare un altro rosario di sofferenza, fatica e usura del proprio fisico, solo per un racconto? Poteva aver senso nella prima metà del secolo scorso, quando nell’età d’oro della Royal Society la mancanza di spazi bianchi sulle mappe tramutò la sete di conquista da geografica ad orografica. Ma una volta soddisfatta l’arroganza degli esploratori e la fame di primati, cos’era rimasto? Perché anch’io, che dell’alpinista ho poco o nulla, ho sentito il bisogno di andare fin quassù? Cosa diavolo ci faccio imbacuccato in un sacco a pelo a 3600 metri, io che sono nato a Matera, tremila metri più in basso e con il mare a mezz’ora di strada?
Il vento sferza il campo senza pietà, fino al giorno dopo. Quando esco dal campo è ancora buio, e mi accorgo di affondare nella neve fino alle ginocchia. La luce di una Luna calante illumina a giorno il sentiero, e nonostante la fatica arrivo senza troppi problemi al primo viewpoint quando ancora sta albeggiando.
È quello il momento più atteso da tutti gli escursionisti e gli scalatori che ogni anno si recano sul Mardi Himal, quando l’alba inizia a tingere di rosa, rosso e arancione la doppia cima del Machapuchare, e dell’Annapurna South a Nord-ovest. Sono pochissimi minuti, poi i colori sfumano in una luce più bianca, intensissima ma decisamente più anonima.

Da lì inizia la parte più impegnativa della salita: il sentiero si fa in alcuni punti estremamente ripido, scoperto, e con alcuni passaggi tecnici anche in assenza di neve. Perlopiù, quel mattino nessuno ha ancora tentato l’ultimo tratto, quindi mi trovo costretto ad aprire la via, invisibile sotto la neve. Eppure, non è in quel tratto che ruzzolo su delle rocce e mi ferisco. In effetti, arrivo alla fine senza troppi problemi, mi godo per qualche momento la consapevolezza di essere riuscito, scatto qualche foto e inizio la discesa. È solo più a valle, su uno stupidissimo gomito dietro degli alberi di rododendro, che un’asta mi si incastra in un sasso e capitombolo su delle rocce. Mi rialzo preoccupato per la macchina fotografica, ma in realtà mi accorgo di qualcos’altro: un dito della mano sinistra è completamente divelto, lussato in una posizione innaturale. Fa male, esce del sangue, non lo muovo. Ci penso un attimo, non può essere troppo diverso da una spalla: conto fino a tre e provo a rimetterlo in sede. Sembra funzionare, ora riesco a muoverlo, ma sembra ancora piuttosto storto. Lo stecco alla bell’e meglio con un bastoncino, e continuo a scendere a valle.

A quel punto decido di deviare dal sentiero per poter ridiscendere più rapidamente, non vorrei che un ritardo in delle cure più appropriate dovesse significare giocarmi il dito. Purtroppo, deviare da un sentiero non è mai una buona idea, e quando mi rendo conto che mi sto lentamente perdendo, da dietro un albero sbuca fuori un cane. È smilzo, sembrerebbe un cucciolo se non lo tradissero le proporzioni. Saltella agilissimo fra radici e rocce, sembra sapere il fatto suo, quindi decido di seguire questa baldanzosa massa di pelo chiaroscuro. Anzi, sarebbe meglio dire che è lui a farsi seguire: ogni volta, dopo aver passato un ostacolo, trotterella indietro di qualche metro a controllare che io sia ancora dietro di lui. A poco a poco, mi guida verso valle fino a una strada sterrata, da cui in qualche ora raggiungo il villaggio di Sidhing.
Qui prendo una jeep che mi riporta a Pokhara, dove mi faccio controllare il dito (miracolosamente salvo). Prima però mi attardo per un lungo saluto al nuovo amico, ripagandolo con qualche biscotto: ho deciso di chiamarlo Dal Bath. Sarebbe il nome del piatto nazionale nepalese, una meraviglia di riso, lenticchie, verdure e spezie talmente buona da diventare un meme e riempire le magliette dei negozi di souvenir -“Dal Bath power - 24 hour”. Quando la jeep inizia la sua discesa verso Pokhara, Dal Bath, ormai profondamente affezionato (a me o ai biscotti) inizia a seguire l’auto prima trottrerellando e poi correndo a perdifiato.

Mi torna in mente un’altra frase: “Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla.” Mi è sembrato subito ovvio che il ragionamento inaugurato da Tata si chiudesse in maniera perfetta, inconfutabile.
Mi sento solo di dover sporcare questa perfezione con un’appendice: a volte serve scalare le montagne per una storia da raccontare, ma quelle più belle vengono sempre a cercarti - o al massimo, ci cadi sopra.