In Mongolia da sola nella steppa

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Venti giorni. Tanto è durato il mio viaggio in solitaria in una delle ultime destinazioni avventurose del mondo. Quando ho scelto di andare in Mongolia credevo di sapere cosa aspettarmi: in un paese che evoca spazi immensi e un senso di libertà estremo e dove i viaggiatori si contano sulle dita di una mano, sarei stata in beata solitudine per la maggior parte del tempo. La realtà si è rivelata ben diversa ed è stato un viaggio molto più affollato di quanto avrei mai creduto. Ma come spesso accade, le cose che avvengono diversamente da come le immaginiamo, si rivelano addirittura migliori. Ad esempio, ho avuto l’occasione di incontrare Aisholpan, la celebre bambina-falconiera, prima che diventasse famosa e condividere con lei la quotidianità della gher.

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L’autrice sul tetto di un UAZ nel deserto del Gobi © Giorgiana Scianca/Lonely Planet Italia
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La Mongolia, il dilemma del viaggiatore solitario

Nei limiti del possibile evito di viaggiare in gruppo. Non che non mi piaccia stare con la gente, nella mia vita regolare ne frequento abbastanza. Ma in viaggio no. Mi distrae dover socializzare sempre. E poi, se l’esperienza è collettiva, provo emozioni meno profonde e il senso del viaggio diventa più confuso. Di questo ero certa. 

Poi è arrivata la Mongolia, che per assurdo è l’antitesi del viaggio in solitaria. La rete dei trasporti è preistorica e molte delle strade (dove l’imprevisto è la regola) non sono asfaltate. Quindi l’unica opzione per un viaggiatore singolo come me è quella di formare un gruppo con cui noleggiare un mezzo solido e un autista capace. La prospettiva di passare giorni gomito a gomito con altra gente non mi piaceva affatto. Ma ormai la decisione era presa, in Mongolia ci sarei andata lo stesso.

deserto della mongolia
Un accampamento nel deserto del Gobi © Giorgiana Scianca/Lonely Planet Italia

Tutti insieme appassionatamente nel deserto del Gobi

La signora che a Ulanbator gestiva la Idres Guest House, si occupava anche di aggregare viaggiatori spaiati alla ricerca di un passaggio per il deserto del Gobi o per qualsiasi altro tesoro naturale di questo remoto e leggendario pezzo di mondo. Visto il budget limitato, avrei attraversato il secondo più grande deserto del Pianeta a bordo di uno UAZ, mezzo militare di fabbricazione russa che in Mongolia è stato convertito in comune pulmino da trasporto. Quanto a comodità e sospensioni non ha niente a che vedere le più costose 4x4 che si vedono sfrecciare nel deserto, ma è decisamente più folcloristico. 

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yurta mongola
Vita quotidiana nella steppa © Giorgiana Scianca/Lonely Planet Italia

Il gruppo che si era formato era altrettanto pittoresco. C’era una coreana di Los Angeles che da oltre un mese vagabondava sola per la Mongolia con un sacco a pelo e una piccola tenda verde. Uno toscano in giro per il mondo da tre anni e una sua amica fiorentina che l’aveva raggiunto per le ferie. Un’israeliana specializzata in cucina e massaggi thailandesi. Una curda residente in Olanda che alternava camicioni leopardati a vestiti lunghi fino ai piedi. E poi c’era Taska, l’autista dagli occhi a mandorla e il sorriso contagioso che parlava solo mongolo. Il gruppo aveva votato a maggioranza: nessun interprete a fare da ponte tra noi e i mongoli, nessuna guida a dirci cosa fare e quando farla. L’unica certezza che avevamo è che in sette giorni avremmo completato un percorso ad anello in un deserto che Taska conosceva a memoria. Tutto il resto lo avremmo valutato volta per volta. Temevo che avrei sofferto questa convivenza prolungata e senza regole con sei sconosciuti, ma contrariamente a ciò che pensavo eravamo sempre d’accordo. Forse il fatto che fossimo tutti abituati a viaggiare da soli (per me era già la quinta volta ma alcuni erano ben più navigati) ci ha messo sulla stessa lunghezza d’onda. Ci è voluto poco per iniziare a sentire i loro sguardi familiari e la presenza di ognuno indispensabile in questa avventura ai confini del mondo. Abbiamo visto Bayanzag, chiamato il canyon delle Rupi Fiammeggianti perché all’ora del tramonto si tinge di rosso, uno scenario che rimarrà impresso nella mia memoria per sempre.  

viaggiare in mongolia
La steppa che scorreva fuori dai finestrini © Giorgiana Scianca/Lonely Planet Italia
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Abbiamo scalato le immense dune di Khongoryn Els e ascoltato la sua sabbia “cantare”, un fenomeno naturale per cui il movimento della sabbia sotto i piedi provoca un suono sordo e profondo. Ma soprattutto abbiamo trascorso lunghe ore a guardare la steppa che scorreva fuori dai finestrini. Una piana che a volte era una distesa infinita di piccoli sassi, mentre altre si tingeva di un’erba che da lontano sembrava polvere verde. Raramente compariva all’orizzonte una gher. Più spesso capitava di vedere pecore, cavalli e montoni che pascolavano senza recinti. In questi paesaggi immutati da secoli, abbiamo vissuto in un tempo sospeso, intervallato dalle canzoni che canticchiava Taska, dalle pause pipì nel vuoto cosmico del Gobi, dal gelato al gusto formaggio quando ci aspettavamo fosse vaniglia e dai racconti delle nostre storie, fatte di sogni e paure, in cui a volte mi riconoscevo. In quei sette giorni siamo entrati in contatto con diverse famiglie nomadi, tutte molto ospitali. Alcune ci hanno affittato una delle loro tende per dormire, altre ci hanno offerto una tazza di tè. Seduti in cerchio nella tenda ci sorridevamo in silenzio (quanto avrei voluto un interprete!) oppure giocavamo con i loro bambini. Sempre noi e loro, due mondi distanti secoli, felici di sfiorarsi per qualche ora.

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dove si trova la mongolia
Aisholpan e Agalai con le loro aquile reali © Giorgiana Scianca/Lonely Planet Italia

Nella gher di Aisholpan, la ragazza che fa volare le aquile

Il giorno successivo al mio ritorno a Ulanbator ho preso un volo per Ulgi, cittadina a Nord-Ovest, quasi al confine con il Kazakistan. Ero stata tentata di seguire gli altri che stavano proseguendo verso la regione degli sciamani e dei grandi laghi del nord con Taska e il suo UAZ, ma questa tappa l’avevo programmata dall’Italia e ci tenevo molto. Nella regione del Bajan-Ôlgij, un territorio dominato dai monti Altai, vive la comunità kazaka dei nomadi falconieri, la più abile e antica del mondo e io volevo entrare in contatto con loro. A Ulgi, principale centro abitato della regione, le agenzie organizzano spedizioni allo spettacolare Tavan Bogd National Park, luogo che prende il nome dalla montagna più alta della Mongolia, ma anche soggiorni con le famiglie nomadi sparse per la regione. “Se vuoi, puoi trascorrere qualche giorno nella gher con Aisholpan e la sua famiglia” mi ha detto l’agenzia di Ulgi, “dopo che la BBC ha realizzato un documentario su di lei, riceve spesso visite di gruppi che vengono per conoscerla. Ma nei prossimi giorni non verrà nessuno, sarai sola con loro, sei fortunata” Così ho scoperto come Aisholpan, che all’epoca aveva 14 anni, un anno prima era diventata famosa per essere stata la prima bambina-falconiera a vincere il Festival delle Aquile di Ulgi, evento in cui si sfidano i più abili falconieri del Pianeta.

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Alma, la mamma di Aisholpan © Giorgiana Scianca/Lonely Planet Italia
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Se grazie ai ragazzi nel Gobi ero riuscita a mantenere un briciolo di comfort zone al cospetto di un’umanità così lontana da me, stavolta quel mondo alieno mi avrebbe inghiottita completamente. L’accampamento era a due ore di sterrato da Ulgi dove mi sono venuti a prendere il padre e lo zio di Aisholpan, entrambi parlavano solo mongolo e kazako. Immaginare di fare un’esperienza così estrema è molto diverso che viverla, rimasta sola con loro mi sono chiesta cosa mi fosse saltato in mente di accettare una proposta simile. L’accampamento era composto da una trentina di gher bianche come il latte, sparse su una piana erbosa e bitorzoluta, incastonata tra le montagne. Il cellulare non dava segnale di vita, avevo tagliato i ponti con tutto ciò che conoscevo. Non mi ero mai sentita così persa e vulnerabile, mi trovavo da sola in una dimensione di cui ignoravo completamente le regole. Le decine di persone che all’arrivo mi osservavano curiose, si scambiavano parole misteriose ed erano perfettamente a proprio agio; al contrario di me che avrei solo voluto tornare indietro. Ma ormai non mi rimaneva altra possibilità che andare avanti. C’è voluto forse un giorno, ma poi tra me, la dolce Aisholpan e la sua famiglia si è creata una strana armonia fatta di silenzi e sguardi di intesa. Insieme condividevamo praticamente tutto, dal momento in cui aprivamo gli occhi la mattina a quando si spegneva la luce la sera e ci addormentavamo in sette sotto la stessa tenda: padre, madre, zio, Aisholpan e i suoi due fratellini. La mia presenza non ha modificato il loro quotidiano, per qualche giorno ho vissuto secondo il tempo dei nomadi. 

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Comitato di benvenuto nella Gher di Aisholpan © Giorgiana Scianca/Lonely Planet Italia

Osservavo le donne dell’accampamento mungere le capre, ero lì quando gli uomini radunavano il bestiame in sella a moto e cavalli, o bevevano vodka seduti in cerchio nella steppa. Ero talmente calata nel loro mondo, che tolleravo persino il puzzo del latte che fermentava notte e giorno nella gher e sapori che spero non dover assaggiare mai più. Mi sono tirata indietro solo di fronte al loro spuntino preferito, testa di pecora bollita. Ogni tanto uccidevano un montone per cena, due volte al giorno Aisholpan nutriva le due aquile appollaiate su un palo vicino alla gher, legate a una corda. Adattarsi a non avere mai privacy, alla mancanza di igiene come la intendiamo noi, a cercarmi un cespuglio ogni volta che avevo bisogno del bagno, non è stato facile. Ma neppure così difficile come credevo, in fondo. L’estate non è stagione di caccia in Mongolia quindi non ho visto Aisholpan e suo padre Agalai cavalcare sulle montagne con le loro Aquile Reali sul braccio, come avrei voluto. In compenso ho aiutato nei lavori domestici e giocato con i bambini, sono andata a cavallo con Agalai su praterie tra i ghiacciai e bevuto litri di tè caldo che sulla stufa alimentata da sterco non manca mai. Dopo quattro giorni, che mi sono sembrate settimane, avevo l’impressione che quasi ci volessimo bene. 

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La gher tradizionale © Giorgiana Scianca/Lonely Planet Italia

Il contatto umano in Mongolia ha significato tutto. In luoghi così inospitali e difficili, come sono questi territori, abitati da un popolo con cui mai ci capiremo davvero, perché la distanza che c’è tra noi e loro va ben oltre la lingua che parliamo, aprirmi e trascorrere molto tempo con persone tutte diverse è stata una benedizione. 

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Chiacchiere a Dalangdazad, centro abitato nel deserto del Gobi © Giorgiana Scianca/Lonely Planet Italia
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La convivenza con i ragazzi nello Uaz non solo mi ha aiutata a sentire meno estraneo un Paese impenetrabile secondo le nostre logiche, mi ha fatto conoscere una dimensione culturale ben più vasta, di cui ognuno dei miei compagni di viaggio mi ha svelato una parte. Dopodiché, vivere senza difese in quella umile tenda stipata di cose, persone e tappeti, mi ha fatto davvero incontrare i nomadi, dimensione che invece nel Gobi avevo appena colto. Il tempo di condividere un tè nella gher, ed eravamo già ripartiti. 

E ancora una volta, come accade in ogni viaggio solitario, ho preso coscienza dei miei limiti cercando di spingerli di qualche metro più avanti. Ma soprattutto mi è stato chiaro come la diffidenza che provo, e che forse proviamo tutti, nei confronti dello sconosciuto o di chi ci sembra ostile perché diverso da noi, è solo un brutto scherzo della nostra mente.

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Un cavallo biondo, Mongolia © Giorgiana Scianca/Lonely Planet Italia

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Post scriptum: nel 2017, due anni dopo il mio viaggio in Mongolia, Aisholpan è diventata famosa in tutto il mondo con il film La Principessa e l’Aquila, uno spettacolare racconto della sua incredibile storia, in cui ha recitato con tutta la famiglia. 

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