L’India ad alta quota: da Leh alla scoperta del Ladakh
Quando l’aereo da Delhi sta per atterrare a Leh, capoluogo della regione indiana del Ladakh, la sensazione è quella di arrivare in un luogo che appartiene a un’altra dimensione. Prima che il portellone si apra, ancora prima di toccare fisicamente il suolo, la percezione è quella di respirare un’aria tersa e purissima. Il cielo è spesso blu, in netto contrasto con il grigiore appiccicoso del resto dell’India che, in estate (il periodo migliore per visitare il Ladakh), deve fare i conti con l’arrivo dei monsoni e un tasso di umidità altissimo.
Un’ora e mezza scarsa di volo e il paesaggio muta fino a diventare montagne ocra attorniate da cime bianche che si stagliano altissime. La raccomandazione delle hostess è quella di fare attenzione all’altitudine, di scendere dall’aereo con estrema calma, di ascoltare il proprio corpo, di non affaticarsi. Il mal di montagna è in agguato.
Delhi sorge a poco più di 200 metri s.l.m; Leh a 3500. Un salto quantico dal punto di vista dell’altezza in un tempo irrisorio e assolutamente inadatto per permettere al corpo umano un adeguato assestamento. Ma la strada per arrivare via terra dal resto dell’India è lunghissima e faticosa, così, la maggior parte dei viaggiatori opta per il volo aereo. Il primo giorno bisogna dunque stare a riposo, pressoché assoluto. Io resto ferma nel mio hotel in cui soggiornerò per numerosi giorni. Si chiama Gomang Boutique Hotel, è molto curato ed è persino provvisto di ossigeno in caso di necessità.
Leh, il capoluogo del Ladakh
Leh è la capitale del territorio indiano del Ladakh, terra degli alti passi montani, racchiusa tra le catene del Karakorum e dell’Himalaya. Si estende lungo la valle dell’Indo che è attraversata a sua volta da numerose valli laterali a ridosso di montagne che superano abbondantemente i 6000 metri.
L’aeroporto di Leh si trova a soli cinque chilometri dalla città, situata in un’oasi verde all’interno di un deserto di alta quota. La città è sormontata da una poderosa fortezza, un palazzo maestoso in stile tibetano. Il Ladakh infatti, insieme allo Zanskar e al Sikkim, territori anch’essi di appartenenza indiana, allo Spiti, al Dolpo e al Mustang (Nepal) e allo stato del Bhutan, è uno dei “piccoli Tibet” sopravvissuti a cavallo dell’Himalaya.
Leh, lo si avverte immediatamente, è un luogo rilassante, estremamente piacevole. Ha cambiato sicuramente faccia, anche in maniera piuttosto significativa rispetto a quello che fu in passato e per lungo tempo, ossia un minuscolo borgo di poche case sparse nel nulla.
Ora è una cittadina animata che offre un’abbondante scelta di hotel, ristorante e negozi di souvenir. Ma è anche caratterizzata da stretti sentieri, incontri con abitanti gentili e curiosi, il ginger-lemon-honey-tea, bevanda tipica del Ladakh che disseta e aiuta a tenere a bada i sintomi dell’alta quota. Colpisce per i templi buddisti, i monasteri, i mercati e, nell’insieme, un paesaggio talmente attraente da innescare in molti viaggiatori il desiderio di restarci più del previsto. Così è accaduto a me.
Leh è da scoprire lentamente. Il Ladakh è in sé il viaggio della lentezza che invita a percorrere pochi chilometri. La fretta di conoscere tutte le meraviglie racchiuse nel suo territorio lascia spazio al desiderio di catturare a piccoli passi un mondo destinato, forse, a scomparire. Ci sarà modo di tornare e di andare altrove.
Così il percorso inizia in città. Basta alzare lo sguardo e là, in alto, incombe fiero il Palazzo Fortezza Reale. È un’aquila che tiene sottocchio l’abitato e il suo circondario. Edificato nel XVII secolo per volere dal re del Ladakh, Singge Narngyal, il Leh Palace fu residenza ufficiale dei sovrani ladakhi fino al 1846. Con i suoi nove piani, in uno stato ormai decedente ma non privo di fascino, il forte appare la rievocazione e la miniatura del ben più famoso Potala di Lasha (Tibet), il simbolo per antonomasia del buddismo tibetano ed ex residenza del Dalai Lama.
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Ancora un po’ più sopra, sorgono le rovine del Forte della Vittoria, emblema della lotta contro gli invasori Kashmiri. Più in basso, invece, abbarbicato su uno sperone roccioso, si trova il Tsemo Gompa, composto da due piccoli templi del XV secolo. Uno dei due costudisce una statua di Maitreya, il Buddha della benevolenza e della compassione, con il volto dorato. Da lì non si vorrebbe mai scendere. Lo sguardo cade sui vicoli, le case di fango, le botteghe artigiane e la cataste di legna raccolte per far fronte all’inverno rigido dell’alta quota. Leh dall’alto è l’incanto della vita che scorre in uno scenario mozzafiato.
Su una ripida altura si staglia un’altra icona della città, lo Shanti Stupa, un grande stupa moderno con la guglia bianca. Costruito tra il 1983 e il 1991 dai monaci giapponesi è importante per il suo significato: il desiderio di promuovere la pace nel mondo. La sensazione è sempre quella di osservare un luogo fermo, immobile, attraversato da un cielo velocemente cangiante. Nelle zone himalayane le nuvole transitano velocissime, mosse da un vento, talora sferzante. Bello tornarci e ritornarci di nuovo in momenti diversi della giornata. Si può cambiare continuamente itinerario per passare da un lato all’altro della città, modificando lo sguardo e inciampando in nuove visioni.
Cosa vedere nelle valli intorno a Leh
Pochi chilometri in qualsiasi direzione e lo stupore ritorna puntuale. Una ventina di minuti verso sud est nella valle di Leh e ci si trova di fronte al Thiksey Gompa, uno dei monasteri più grandi e frequentati del Ladakh.
È mattina presto quando lo intravedo sorgere maestoso su una collina rocciosa per la prima volta, giusto in tempo per assistere alla puja, la preghiera dell’alba. Mantra si intersecano a suoni di trombe e tamburi. L’atmosfera è surreale, come sovente accade da queste parti. Mi siedo, ascolto e osservo. Non c’è altro da fare che lasciarsi trasportare da riti che si susseguono da secoli, descrivendo il trascorrere delle ore e dei giorni. La mia comprensione è superficiale, ovviamente, nonostante le reiterate letture. Ma l’effetto è spiazzante. Quasi estatico.
Poi, terminata la celebrazione, un monaco esce. È solo, è il primo che varca la porta verso l’esterno. Si ferma poco fuori dalla sala della preghiera e resta immobile. Scruta il paesaggio sottostante, ampio e verdissimo. In lontananza compaiono cime innevate. È di nuovo poesia.
Proseguendo verso sud, a mezz’ora di distanza da Thiksey, si trova il monastero di Hemis. Si tratta della più grande istituzione monastica del Ladakh. Non è in cima a un promontorio, ma in posizione defilata in una valle delimitata da dirupi. Fu fondato nel 1602 da Tagtsangrepa, monaco bhutanese dell’ordine Dugpa-Kagyupa (una delle quattro principali scuole del Buddismo tibetano) chiamato in Ladakh dal re Singge Narngyall. Per molti anni, Hemis fu privato del Superiore che era stato fatto prigioniero dai cinesi, mentre studiava in uno dei collegi di Lhasa. Hemis ha un magnifico e ampio cortile centrale e dispone anche di un museo ricco di preziosi oggetti sacri.
Tra i numerosi tesori sparsi qua e là, dirigendosi, questa volta verso ovest, a 42 chilometri da Leh, c’è un luogo dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, è il Chamba Gompa, costituto a sua volta da tre templi: il Chamba Lhakhang, il Chamchung e il tempio Serzang.
Al di là della descrizione precisa di quest’area monumentale di Basgo che fu la capitale del Ladakh occidentale prima che, nel 1470, si congiungesse a Leh, ciò che stupisce è il panorama incredibile in cui le rovine sono immerse. È la commistione tra cime maestose, intervallate da rocce giallastre e il verde accesso del fondovalle.
La strada prosegue verso Alchi, un complesso formato da quattro templi principali decorati da magnifici e ben conservati dipinti murali dell’XI e del XII secolo. Alchi è noto come il più alto punto di espressione dell’arte indo-tibetana del Ladakh, fondato nell’anno 1000 da Ring-che Zangpo, noto come il “Grande Traduttore”, di testi buddisti dal sanscrito al tibetano durante la seconda diffusione della religione buddista in Tibet. Alchi è anche un villaggio molto gradevole in cui soggiornare. Un luogo in cui stare, anche a lungo. Alchi è da assaporare la sera e la mattina presto quando i turisti giornalieri se ne sono andati. C’è un locale dove pranzare è una delizia. I piatti di farina d’orzo vengono preparati al momento in una piccola cucina a vista. I dolci raccontano la storia delle valli in cui si coltivano albicocche piccole e succulente. Si chiama Alchi Kitchen.
I segnali stradali e Lamayuru
Proseguendo verso Laymauru, sempre più a ovest, in direzione Kargil, si notano numerosi cartelli stradali. In realtà parecchi se ne erano già visti lungo la prima parte del percorso da Leh in direzione occidentale. Sono inviti cortesi alla moderazione della velocità: “Darling, I like you, but not so fast”; “Mountains are pleasure if you drive with leisure”…La strada in effetti è piena di curve e ogni tanto qualche masso cade dall’alto. La prudenza è d’obbligo.
A un’ora di viaggio le montagne diventano di un giallo intenso e in alto, sopra un gola stretta, compare quello che per me, fin da subito, si rivela una visione. È Lamayuru, il monastero più antico del Ladakh, un luogo che sta sulla luna. Fondato nell’XI secolo è, a tutti gli effetti, un posto senza tempo, immerso in un paesaggio davvero lunare, attorniato da calanchi consumati dalla furia degli elementi e dai millenni.
A Lamayuru ci sarei dovuta restare poche ore, come accade alla maggior parte dei viaggiatori, io sono rimasta quattro giorni. Lì scorre la vita di pochi abitanti, sempre gli stessi che si incontrano all’alba, il pomeriggio e la mattina seguente. Sono donne che filano lana, uomini che sfiorano i rotoli di preghiera, monaci che recitano mantra, novizi che corrono su e giù per per scalinate del monastero.
C’è un hotel sulla strada principale, proprio sotto il monastero e accanto un negozietto dove si può trovare un po’ di tutto. Lungo quella strada transitano camion colorati diretti verso il Pakistan. L’albergo si chiama Dragon e lo gestisce una ragazza con cui ho amabilmente chiacchierato ogni sera. La sento regolarmente. Mi aspetta, questa volta pronta a offrirmi anche un caffè italiano.