Bosnia, il cuore dei Balcani
Ha la forma di un cuore ed è il punto nevralgico del mondo balcanico, dove l’Est incontra l’Ovest: la Bosnia-Erzegovina. Le arterie che nei secoli le hanno portato ossigeno sono state le molteplici culture e religioni che qui si sono incontrate, confrontate e sovrapposte, in un flusso tumultuoso di linfa vitale. Ma si sa, tutti i cuori rischiano di essere spezzati se una storia d’amore entra in crisi e così dagli anni ’90, quando la guerra ha infranto il sogno di una convivenza felice, il paese ha dovuto fare ricorso a tutte le sue energie per ricomporre i pezzi sparsi in un organo unitario di nuovo pulsante di vita. Camuffato il dolore dietro a un sorriso disincantato, oggi la Bosnia torna a coltivare la bellezza della sua anima multiculturale, ma lo spettro del conflitto è ancora in agguato, come ci ricordano i recenti fatti di attualità.
Eredità di una lunga convivenza
Mi sono innamorata della Bosnia-Erzegovina quando ho messo da parte le categorie preconfezionate che restringevano il mio campo visivo: è stato un dettaglio, ho notato una stella di David emergere dalla parete del minareto in una moschea antica. In quel momento ho colto la straordinarietà di una terra capace di armonizzare elementi che di primo acchito mi sarebbero sembrati inconciliabili, senza però appiattirne i contrasti. Da allora il mio viaggio è stato un continuo tumulto di stimoli: passeggiando per le strade cittadine, con un orecchio percepivo il richiamo alla spiritualità del canto del muezzin, con l’altro cedevo allo spregiudicato invito alla mondanità suggerito dalla musica elettronica di un roof bar; a due passi da me una donna con il velo era tutta intenta a chiacchierare con l’amica dagli abiti attillati e i capelli al vento, mentre i rispettivi figli stavano con la testa china sul cellulare come in qualsiasi altra parte d’Europa. A tavola ho apprezzato il mix di influenze del Vicino Oriente e del Mediterraneo, dopo cena potevo scegliere tra il relax garantito dai grandi cuscini in stile ottomano di uno shisha bar, lo scatenato e balcanicissimo ritmo del turbofolk oppure un DJ-set in un locale trendy.
Anche l’architettura mi ha disorientata: la prima volta che l’ho vista dall’alto, Sarajevo mi è apparsa come un vortice tra le colline che per qualche misteriosa forza centripeta aveva calamitato cupole a cipolla ortodosse, guglie come se ne vedono nelle grandi cattedrali cattoliche ed esili minareti determinati a fare capolino fra massicci edifici di matrice iugoslava e modernissimi centri commerciali tutti in vetro. A dominare lo scenario a est c’era però un palazzo, che ha subito attratto il mio sguardo per la sua eccentricità, e poi si è imposto ai miei occhi come un imprescindibile elemento dello skyline cittadino per la sua pregnanza simbolica: la Biblioteca Nazionale. Quintessenza dell’anima multiculturale della capitale già nell’architettura, che coniuga la grandiosità imperiale dell’epoca austroungarica con elementi neomoreschi, questo ‘sogno d’Oriente’ nasce nel 1896 come municipio, ma è destinato a cambiare funzione, e a caricarsi di nuovi significati, nel corso del Novecento
Nel 1947, infatti, diviene la Biblioteca Nazionale e Universitaria della Bosnia-Erzegovina: da allora si trasforma in uno dei fulcri della vita culturale della città e richiama studenti, letterati e intellettuali di tutto il paese, una comunità di bibliofili serbi, croati e bosgnacchi (bosniaci musulmani) che consultano insieme l’incredibile patrimonio librario fatto di manoscritti, incunaboli, documenti medievali e volumi di ogni epoca. Nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 la biblioteca è bersaglio delle bombe incendiarie lanciate dalle truppe al comando di Mladić: il palazzo crolla e il 90% del tesoro letterario qui custodito va in fumo, perduto per sempre. Mentre le fiamme divorano l’edificio, a incenerirsi è il simbolo dell’unità della Bosnia: lo scrigno della cultura nazionale. Una delle immagini più intense che raccontano il legame degli abitanti con questo monumento è quella del violoncellista Vedran Smailović, che in pieno assedio ne ha scelto le rovine come palcoscenico in cui suonare, esposto ai colpi dei cecchini, per 22 giorni di fila in memoria dei 22 civili uccisi mentre erano in fila per il pane. Ci sono voluti 18 anni di lavori perché la cittadinanza e l’intera nazione potessero riappropriarsi della loro Biblioteca, ricostruita sul modello originale, oggi icona della rinascita post-bellica.
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Arte e resistenza, dagli anni ‘90 a oggi
Ogni estate nei giorni del Sarajevo Film Festival, l’appuntamento cinematografico più importante dei Balcani, la capitale esplode di gioia e di vita: i locali si affollano di bosniaci e stranieri tutti intenti a chiacchierare dell’ultimo film in concorso, nelle piazze si allestiscono palchi per concerti ed eventi e intorno ai grandi schermi si raccolgono autentici cinefili e puri amanti delle kermesse. A esplodere durante la prima edizione del festival erano invece le bombe: era il 1995, i sarajevesi erano imprigionati in una città sotto assedio, privati di tutto, della corrente elettrica come dell’acqua, ma pronti a sfidare i colpi dei cecchini pur di difendere la loro dignità e integrità mentale. Gli anni della guerra videro una fioritura delle arti che quasi non aveva precedenti: l’effetto catartico di un dramma visto a teatro, di fronte a un palcoscenico illuminato da sole candele perché non c’erano altre luci, meritava i rischi che si correvano a uscire di casa, le proiezioni cinematografiche erano affollate e gli scantinati dei palazzi bombardati diventavano studi di prove per le band rock. Il Sarajevo Film Festival è solo la più famosa delle eredità culturali che oggi ci parlano dell’indissolubile legame fra arte e resistenza. Proprio in questi giorni si ritaglia piccoli spazi nella stampa nazionale bosniaca, portando un po’ di luce nell’oscurità delle notizie più recenti, l’Ars Aevi Museum, un museo concepito nell’aprile 1992, frutto di un progetto visionario che ai tempi era una sorta di scommessa con il destino: la capitale bosniaca non poteva soccombere alla distruzione in corso perché in futuro sarebbe divenuta un centro dell’arte contemporanea mondiale. Il primo passo per vincere la scommessa fu quello di lanciare un appello agli artisti di tutto il globo perché donassero una loro opera a Sarajevo – di cui Ars Aevi, espressione latina che significa ‘arte dell’epoca’, è anagramma (manca la ‘o’, ma è sostituita da un simbolo grafico nel logo). L’iniziativa partì ufficialmente nel 1993 alla Biennale di Venezia e l’Italia diede un grande contributo: Michelangelo Pistoletto fu il primo a regalare un’opera, La porta dello specchio. Il successo è poi andato ben oltre le più rosee aspettative: oggi la collezione include installazioni, foto e sculture con nomi di punta quali Abramović, Castellani, Nan Goldin, Kounellis, LeWitt, Muñoz… Purtroppo manca ancora una tappa al coronamento di questa ambiziosa sfida: non c’è una sede espositiva definitiva. Le notizie confortanti che giungono in questi giorni, però, sono appunto relative a un possibile stanziamento dei fondi per avviare i cantieri e costruire la nuova sede, il cui progetto è stato donato da un architetto italiano, e non un nome da poco: Renzo Piano.
Perché non ci sei? Što te nema?
8372: è il numero di tazzine che compongono l’installazione Što te nema? (Perché non ci sei?) dell’artista Aida Šehović. Immaginate un’immensa distesa di piccole porcellane disposte concentricamente in un allestimento che dà corpo al rito sociale che unisce i Balcani, quello del caffè. Per chi arriva dall’Italia, abituato all’idea dell’espresso tracannato al bancone di un bar, la bosanska kafa, il caffè bosniaco, è la porta che introduce a un’altra dimensione, dove si impara a riappropriarsi del tempo, a partire da quello necessario per far depositare la miscela, e a condividere con gli altri un momento conviviale che esprime l’anima più mediterranea e solare di questa terra.
8372: è il numero delle vittime di Srebrenica. È a loro, agli assenti con cui si vorrebbe condividere il caffè insieme al proprio tempo, che questa installazione è dedicata. Ecco il vero significato dell’opera, concepita nel luglio 2004 come un monumento temporaneo da allestire ogni anniversario della strage in una città diversa (è passata anche a Venezia, nel 2019) fino al 2020, quando a 25 anni dai tragici fatti l’installazione è stata portata in via definitiva a Srebrenica.
La prima immagine che si è materializzata ai miei occhi quando ho letto su diverse testate italiane e straniere titoli forti, che paventano l’imminenza di un nuovo conflitto in Bosnia-Erzegovina, è stata quella delle tazzine di Što te nema?, un’opera capace di incarnare l’orrore dell’assenza nel quotidiano, il vuoto reso tangibile da un caffè che non sarà più bevuto. Il suo significato mi è sembrato arricchirsi di nuove sfumature alla luce dei fatti di attualità: la lunga evoluzione di questa installazione (partita da un nucleo originario di un migliaio di tazzine appartenenti alle Donne di Srebrenica, si è arricchita gradualmente di nuovi pezzi, donati dal pubblico) ha seguito passo per passo il lungo processo di rielaborazione del genocidio di Srebrenica, un dramma che gioca ancora un ruolo centrale nella narrazione politica nazionale – l’acuirsi delle tensioni, culminate negli ultimi giorni con le dichiarazioni dei politici serbobosniaci di voler creare un loro esercito separato da quello nazionale, è in realtà cominciato a luglio, quando l’Alto rappresentante garante del rispetto degli accordi di pace di Dayton ha imposto emendamenti contro chi nega il genocidio di Srebrenica. Non è però solo il legame con la storia di Srebrenica a farmi apprezzare ancora di più l’opera Što te nema? di Aida Šehović. In fondo in fondo è un pensiero di resistenza quello che si forma nella mia mente quando visualizzo le tazzine piene di caffè: Aida Šehović è nata a Banja Luka, oggi capitale de facto della Republica Srpska, e come tanti musulmani è dovuta fuggire dalla sua terra durante la guerra. Eppure la sua installazione mette in scena un rito che accomuna i bosniaci, senza bandiere etniche: nelle tazzine di Aida voglio leggere un invito rivolto a tutti, serbi, croati e bosgnacchi, a ricordare insieme le vittime per non doverne piangere di nuove.
Qualche consiglio per cercare di capire cosa accadde a Srebrenica.
Se siete in viaggio in Bosnia-Erzegovina, a Sarajevo non perdete la Memorial Gallery 11/07/95, una galleria che affida a un’esposizione fotografica di impareggiabile efficacia visiva e a una serie di video il compito di testimoniare l’eccidio di Srebrenica, mentre a Srebrenica c’è il Memorijalni Centar di Potočari, un memoriale che affianca al cimitero un museo per commemorare le vittime del massacro.
A casa: il film Quo vadis, Aida? (2020), per la regia di Jasmila Žbanić, pur nella finzione narrativa, ricostruisce con semplicità e accuratezza i passaggi che portarono alla morte di tante persone che dovevano essere invece protette. Se siete facili alle lacrime, preparate scorte di fazzoletti.