Viaggio in Ecuador tra le Ande e le Galápagos

17 minuti di lettura

L’Ecuador sarà anche un paese piccolo, ma possiede una ricca gamma di posti sensazionali. Esplorate la capitale coloniale, Quito, e poi addentratevi nella foresta nebulare, popolata da colibrì e puma. Salite quindi sulle Andre per incontrare gli artigiani di Otavalo e partite da Ibarra per un viaggio panoramico in treno. Infine concludete la vostra avventura tra la fauna unica delle Galápagos.

Plaza San Francisco a Quito © Philip Lee Harvey / Lonely Planet
Plaza San Francisco a Quito © Philip Lee Harvey / Lonely Planet
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Quito

Il cielo azzurrissimo di un’alba ad alta quota si apre sulla città vecchia di Quito, mentre i cani rincorrono i furgoni che trasportano i prodotti alimentari al mercato sferragliando sulle strade sconnesse lastricate con pietre provenienti dai pendii del vicino vulcano Pichincha. I negozianti alzano le serrande e si salutano mentre dispongono le merci: sacchi di cumino e cannella, pentole di alluminio, pile traballanti di zoccoli di bovini, piñatas a forma di unicorno, Minnie e SpongeBob.

Il commercio anima queste ripide e strette vie secondarie. Davanti ai negozi, donne che indossano cappelli di feltro e poncho di lana stendono tappetini sui marciapiedi dove dispongono pannocchie, patate e avocado coltivati nei villaggi da cui ogni giorno scendono in città.

"Tutti si scambiano chismes”, spiega Paola Carrera, guida del quartiere di San Roque. “Questa parola indica le novità e i pettegolezzi che questi venditori condividono e portano nella capitale da tutto l’Ecuador”. La madre di Paola gestisce un negozio che vende l’agua de vida, un tonico dolce preparato con 25 piante, tra cui i fiori di amaranto, che gli conferiscono il colore rosa acceso, ed erbe provenienti perfino dalla lontana foresta amazzonica.

“Mi è sempre piaciuto vivere qui, sopra il negozio”, dice Paola. “Gli edifici del quartiere sono così tradizionali, così caratteristici. Gli abitanti di San Roque provano un forte legame con il loro quartiere, e questo senso di appartenenza è sempre stato un motivo di richiamo per i visitatori”.

L’interno dorato dell’Iglesia de San Francesco © Philip Lee Harvey / Lonely Planet
L’interno dorato dell’Iglesia de San Francesco © Philip Lee Harvey / Lonely Planet

Entrando nella vicina Iglesia de San Francisco dalle mura imbiancate attraverso le massicce porte di legno, Paola si fa il segno della croce, come fanno quasi tutti gli abitanti; qualcuno tocca anche le sculture degli dèi del sole poste vicino all’ingresso, un gesto che si ritiene sia fonte di energia.

La prima pietra della chiesa fu posata nel 1535, poco dopo l’arrivo dei conquistadores spagnoli provenienti dall’Andalusia. Con una mossa pragmatica che aveva l’obiettivo di conquistare il favore della popolazione locale, i frati francescani consentirono agli abitanti indigeni di Quito di continuare a usare i simboli religiosi a loro familiari insieme a quelli cattolici dei soldati invasori. I conquistadores portarono con sé anche lo stile dell’architettura moresca islamica del Nord Africa; lo spettacolare interno dorato della chiesa rifletteva la loro grande ricchezza, mentre per la gente di Quito l’oro incarnava il potere eterno del loro dio del sole.

Mentre esploriamo il quartiere, Paola ci presenta alcuni artigiani dei negozi di San Roque. Don Gonzalo Gallardo, specializzato nel restauro di effigi sacre, ci mostra un Bambino Gesù di plastica bruciacchiato nell’incendio di una casa e una Madonna in gesso di Parigi rimasta senza un braccio in seguito a una caduta accidentale da un altare allestito in un soggiorno. César Anchala gestisce la Sombrerería Benalcázar, un negozio di cappelli fondato da suo padre circa 65 anni fa, e usa gli stessi stampi e strumenti per creare i vari stili di cappelli di feltro esposti nel negozio. La sua attività è varia perché include anche la vendita di maschere da indossare in occasione di feste come l’Inti Raymi, le cui origini si possono far risalire agli incas, giunti nel XV secolo. Le maschere raffigurano demoni terrificanti ma non troppo, oltre ad alcuni politici ecuadoriani.

Nel mercato di San Roque, davanti alla bancarella di Rosa Correa si è formata la coda nonostante le urla che si sentono provenire dall’interno. Una giovane coppia esce da dietro una tenda con lo sguardo stralunato. Come molti clienti di Rosa, pagano $8 a settimana per un trattamento contro lo stress e l’influsso del malocchio. Rosa è una sciamana di quarta generazione la cui tecnica implica una sequenza di allegre frustate con varie piante, tra cui peperoncini, calendule, petali di rosa, menta e ortiche.Le vecchie credenze sono ancora molto vive, e qualche volta pungono un po’.


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La vista dal Mashpi Lodge sulla sua riserva di foresta nebulare  © Philip Lee Harvey / Lonely Planet
La vista dal Mashpi Lodge sulla sua riserva di foresta nebulare © Philip Lee Harvey / Lonely Planet

La foresta nebulare

Nella foresta nebulare del Chocó e delle Ande, a 1200 m, risuona la musica della giungla. Il rombo del tuono fornisce i bassi, mentre il picchiettio delle gocce di pioggia aumenta il ritmo schizzando su rampicanti, felci e folte colonne di muschio. Il frinire degli insetti cambia vertiginosamente intensità e ritmo. E poi, quando lo sguazzare degli scarponi nel fango si ferma, l’aria di riempie di un singolare ronzio.

“Un eremita baffibianchi”, bisbiglia la guida José Napa. “Una silfide codaviola”, dice con crescente entusiasmo. “Hmmm, un inca bruno. Un puntabianca golaviola! Un brillante di Eugenia!”

José è circondato ora da un turbinio di colibrì verdi, rossi e blu coraggiosamente emersi dalla nebbia per avvicinarsi alla mangiatoia che ha appena riempito con sciroppo di zucchero. Si stabilisce rapidamente un ordine gerarchico, letteralmente con un colpo di becco sulla testa di un codalunga verde piccolo come un’ape che cerca di passare davanti a un esemplare più grande. “Sono così aggressivi perché hanno bisogno di mangiare in continuazione”, spiega José. “Hanno un metabolismo velocissimo e i fiori di cui preferiscono cibarsi possono stranamente scarseggiare nella foresta”. Un esemplare dimostra il suo slancio volteggiando a un paio di centimetri dal disegno di un fiore su una T-shirt, cercando di guardare da vicino nella remota possibilità che sia reale.


Una coppia di puntabianca golaviola, una specie di colibrì del Sud America, impegnata in una danza di corteggiamento © Philip Lee Harvey / LonelyPlane
Una coppia di puntabianca golaviola, una specie di colibrì del Sud America, impegnata in una danza di corteggiamento © Philip Lee Harvey / LonelyPlane
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Oltre alla foresta amazzonica, il Chocó è l’altra forma di foresta pluviale dell’Ecuador. Qui le nuvole provenienti dal Pacifico, scontrandosi con le pendici inferiori delle Ande, provocano ogni anno fino a 6000 mm di pioggia. È uno degli ambienti più umidi e ricchi di biodiversità della terra, ma è anche seriamente minacciato dall’inquinamento dei corsi d’acqua, dall’agricoltura praticata con il metodo del taglia e brucia e dal disboscamento illegale.

José era un agricoltore di sussistenza che coltivava arachidi, manioca e banane. Poi entrò nel settore del legname, ma quando la segheria locale fu chiusa e al suo posto fu costruito un lodge privato, quattordici anni fa, José venne a lavorare qui. Dove prima c’era una concessione di disboscamento è stata creata una riserva naturalistica di quasi 1200 ettari al cui interno si trova un ecolodge, il Mashpi. La riserva è situata in una zona cuscinetto di quasi 17.000 ettari a sviluppo sostenibile il cui obiettivo è offrire agli animali dei corridoi migratori tra le sacche di foresta pluviale.

José conosce molto bene la foresta, avendo trascorso gran parte della sua vita girandola in lungo e in largo. È in grado di prevedere il rumoroso avvicinarsi di una quaglia boschereccia pettorossiccio dal minimo fruscio di una foglia nel sottobosco. Poi mi svela una radura sotto una cascata scrosciante dove di notte si radunano le lucciole.

Mi indica anche un frutto molto gradito dai tucani del Chocó – che li manda un po’ su di giri – e un fungo chiamato dita di morto, che quando viene aperto rilascia un unguento antibiotico usato dai locali come cura per le infezioni agli occhi. Quando arriviamo a un punto panoramico che dà una valle immersa in una bassa foschia, José lancia un grido, e da lontano si sente la risposta. “Scimmie urlatrici”, dice.

Nella riserva di Mashpi sono stanziate oggi in modo permanente squadre di scienziati che svolgono ricerche sulle sue numerose specie di farfalle, pianificano la reintroduzione delle scimmie ragno testabruna, oggi a rischio di estinzione, e utilizzano telecamere attivate da sensori di movimento per riprendere i mammiferi che si nascondono nel folto della foresta. Uno spezzone mostra un raro incontro mancato per un soffio da un ospite del lodge. Prima si vede l’uomo, uscito per una passeggiata mattutina, a pochi minuti dal lodge. È ignaro di essere osservato da un predatore – poco dopo la telecamera inquadra un grande puma curioso che lo segue a breve distanza.


Jose Luis Fichamba suona un rondador di bambù fatto nel suo laboratorio © Philip Lee Harvey / Lonely Planet
Jose Luis Fichamba suona un rondador di bambù fatto nel suo laboratorio © Philip Lee Harvey / Lonely Planet

Otavalo

La strada verso Otavalo sale accidentata sulle Ande, tra maiali neri distesi nella polvere e mucche tozze che brucano l’erba alta fino alle ginocchia. Campi di fave, lupini e mais prossimi al raccolto sono delimitati da agavi appuntite con fiori mai visti che crescono verso il cielo. Dove il terreno si fa troppo ripido per poter essere coltivato vivono puma, orsi dagli occhiali e condor.

Come a Quito, i mercati di Otavalo sono i posti in cui si ritrovano gli abitanti delle campagne circostanti. Oggi nella chiesa principale la messa viene celebrata in kichwa, la lingua indigena che si sviluppò dall’antica lingua parlata dagli invasori inca, i quali in seguito si arresero ai conquistadores spagnoli. Fuori dalla chiesa i nativi imbaya sono in cerca di clienti: gli uomini indossano quasi tutti cappelli di feltro dalla forma ben tesa su una lunga treccia, le donne sfoggiano collane di perle di vetro rivestite di lamina d’oro su ponchos blu scuro e bluse bianche con splendidi fiori ricamati a mano.

Il mercato alimentare giornaliero è pieno di prodotti coltivati nel fertile terreno vulcanico delle Ande: more e pomodori ciliegini, banane plátanos ed erba medica, mais e fagioli di ogni tipo. Nel corridoio centrale del mercato si comincia a servire il pranzo: ciotole fumanti di molluschi, brodo di pollo, sanguinaccio mescolato con popcorn e hornado, maiale arrostito intero. Rosario Tabango esibisce con orgoglio il certificato che attesta che il suo hornado è il più buono di tutto l’Ecuador, consegnatole dal presidente ecuadoriano. I pezzi di carne, alcuni morbidi, altri croccanti, sono insaporiti con sale, aglio e il gusto di affumicato dato dalla legna su cui il maiale viene arrostito, che Rosario va a raccogliere in montagna.

Anche se quasi tutti i venditori ambulanti del mercato dell’artigianato di Otavalo indossano abiti tradizionali imbaya, è molto difficile trovare questi capi in vendita. Fin dall’epoca precolombiana, i loro antenati hanno sempre soddisfatto le esigenze dei consumatori, il che significa che oggi offrono ai turisti di passaggio sgargianti ponchos di poliestere, T-shirt con Che Guevara e cuffie con pon pon con Bob Marley .


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Luz Maria Andrango tesse su un telaio a tensione, un congegno che risale all’epoca degli incas © Philip Lee Harvey / Lonely Planet
Luz Maria Andrango tesse su un telaio a tensione, un congegno che risale all’epoca degli incas © Philip Lee Harvey / Lonely Planet

Le arti tradizionali sono conservate molto meglio nei villaggi a nord-est di Otavalo. Ad Agato c’è un basso laboratorio di pietra con telai semplici, ceste di lana di alpaca e un recinto di porcellini d’India che emettono versi striduli. All’interno, Luz Maria Andrango sta tessendo una guagua chumbi, la tradizionale cintura imbaya da donna usata per stringere la blusa. Ci vogliono dieci giorni di lavoro per completare una cintura, che viene tinta con coloranti naturali ricavati da cocciniglie carminio, licheni gialli, indaco e castagne marroni.

Nel vicino villaggio di Peguche c’è il laboratorio di flauti di José Luis Fichamba, fondato nel 1969. “Ho fatto i miei primi flauti a dieci anni, e li ho dati subito ai miei amici per formare un gruppo”, mi dice Fichamba. Figlio di un tessitore e nipote di un musicista, continua ancora a creare strumenti tradizionali come il paya (piccolo flauto di Pan), il rondador (un flauto di Pan più grande che può suonare due note contemporaneamente) e il gaita (un lungo flauto di legno tipico di Otavalo, suonato soprattutto in occasione della festa di Inti Raymi).

Mentre suona un rondador, mi dice: “Quando suono il rondador mi sento una persona molto speciale – oggi in Ecuador non siamo rimasti in tanti a suonarlo. Una volta lo si poteva sentire dappertutto sulle Ande”. La musica di Fichamba è estremamente accorata, di una bellezza resa ancora più intensa dalla cornice del villaggio con i vulcani innevati che si stagliano sullo sfondo – e completamente diversa dal brano che viene suonato più frequentemente con i flauti di Pan nei bar di Quito: 'Dancing Queen’ degli Abba.


Venditori locali e frenatori attendono la partenza del Tren de la Libertad da Ibarra © Philip Lee Harvey / Lonely Planet
Venditori locali e frenatori attendono la partenza del Tren de la Libertad da Ibarra © Philip Lee Harvey / Lonely Planet
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Ibarra

Da una città coloniale di montagna a una comunità afroecuadoriana immersa tra le piantagioni di canna da zucchero: un viaggio in treno che passa accanto – e a volte anche attraverso – ad alcuni vulcani.

Il Tren de la Libertad non ha fretta di partire. Una squadra di frenatori in uniforme di jeans controlla le due carrozze rosse in vista della ripida discesa attraverso le Ande. Non è ancora l’ora di punta del mattino a Ibarra, la città più grande a nord di Quito. Lungo i binari ci sono venditori ambulanti seduti su sgabelli di legno che bevono il caffè insieme e offrono papaya, giornali e caramelle ai passeggeri che gironzolano lì vicino.

Questo antico avamposto coloniale di montagna ha una storia travagliata. Secondo la leggenda, il vulcano Imbabura è il sacro protettore di questa regione, ma Ibarra fu distrutta da un terremoto nel 1868. Alla base del vulcano c’è il lago Yahuarcocha, il cui nome significa ‘lago di sangue’, in memoria dei 30.000 guerrieri indigeni caranqui che furono uccisi qui nel XV secolo dall’esercito dell’imperatore inca Huayna Capac.

Un suono sordo di campanelle e uno strombettio di clacson scatena un turbine di attività. I bambini che curiosavano dentro la cabina del macchinista vengono tirati via, si caricano i bagagli. Il rituale della partenza si fa ancora più spettacolare con l’arrivo di due motociclisti di scorta vestiti come supereroi in tuta e corazza. I motociclisti viaggiano davanti al treno per la prima metà del tragitto per allontanare il bestiame dai binari e costringere i camion carichi di canne da zucchero a fermarsi ai passaggi a livello. Il treno attraversa lentamente i sobborghi della città tra palme ondeggianti. Il viaggio è breve ma panoramico. Il treno impiega un paio d’ore per percorrere circa 35 km e durante il tragitto attraversa cinque gallerie scavate a mano ai primi del Novecento e due ponti su profonde gole. L’altitudine scende da quasi 2194 m a 1585 m, tra paludi, pianure aride, foreste di cactus e solitarie e gigantesche bromeliacee, mentre la temperatura sale da 15°C a 30°C.


Milena Espinoza esegue una danza bomba © Philip Lee Harvey / Lonely Planet
Milena Espinoza esegue una danza bomba © Philip Lee Harvey / Lonely Planet

I passeggeri del treno riflettono grosso modo la composizione della popolazione ecuadoriana: 3% afroecuadoriani, 25% indigeni e una maggioranza di mestizos, cioè persone di discendenza mista spagnola e indigena. Il percorso si fa pianeggiante e il treno attraversa coltivazioni di canna da zucchero che si estendono lungo tutto l’orizzonte. La canna da zucchero viene coltivata fin dal XVI secolo, quando i primi gesuiti, giunti poco tempo dopo l’arrivo dei conquistadores, fondarono le prime grandi haciendas. Ben presto i gesuiti si resero conto che gli schiavi africani avrebbero potuto essere impiegati nella raccolta delle canne in modo più efficiente rispetto ai braccianti indigeni, che in genere erano di statura inferiore. Il nome del treno è un tributo alla libertà accordata infine a quegli schiavi a metà del XIX secolo.

Milena Espinoza discende dagli schiavi che scelsero di restare a vivere nella tranquilla cittadina di Salinas, capolinea del treno. Insieme alle sue amiche accoglie i passeggeri che scendono dal treno con la ‘bomba’, una danza tradizionale afroecuadoriana dal ritmo facile eseguita su una musica vivace. “Se potessi, ballerei la bomba in continuazione”, dice. “Siamo felici di salvare le antiche tradizioni. Queste sottane di cotone sono come quelle che una volta indossavano le cameriere, e noi balliamo con una bottiglia sulla testa come facevano le nostre antenate – uno stratagemma perché i padroni non portassero via gli alcolici agli schiavi”. Quando le chiedo il significato del testo della canzone, Milena mi spiega: “I testi sono sempre uguali. Dicono che questa donna è nera e felice. Fa questi passi, e poi dà un bacio alle amiche”.


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Un granchio Grapsus grapsus si arrampica su un’iguana marina © Philip Lee Harvey / Lonely Planet
Un granchio Grapsus grapsus si arrampica su un’iguana marina © Philip Lee Harvey / Lonely Planet

Le Galápagos

Nella luce del tramonto tropicale, un gruppo di taxisti si sfida in una partita di pallavolo. I bambini urlano per l’eccitazione e mangiano enormi quantità di popcorn, mentre alcuni insoliti visitatori si uniscono alla folla che fa il tifo. Un leone marino delle Galápagos riesce a salire su una panchina vicino al porto di Puerto Ayora, appoggia le pinne fuori dal bordo e fa finta di dormire, con un occhio aperto in cerca di uno spuntino. Dalla marea che si alza rapida arriva un’orda di granchi Grapsus grapsus, le cui chele rosse rovistano tra le rocce in cerca di cibo. A loro si uniscono le iguane marine, che starnutiscono increspando il muso per eliminare il sale assorbito durante le immersioni a caccia di alghe.

Le Galápagos furono chiamate Las Islas Encantadas dai primi esploratori giunti nel XVI secolo e sono avvolte ancora oggi da un’aura leggendaria. Non tutti associano questo arcipelago di 19 isole sperdute nel Pacifico all’Ecuador, da cui distano quasi 1000 km. E anche se l’attenzione di tutti i visitatori si concentra sui suoi animali selvatici, spesso unici e stranamente sfrontati, le isole hanno anche una popolazione di 30.000 abitanti, metà dei quali vivono nella città di Puerto Ayora, sull’isola centrale di Santa Cruz.


Resti di flussi di lava si riversano nel Pacifico vicino al Cerro Dragon © Philip Lee Harvey / Lonely Planet
Resti di flussi di lava si riversano nel Pacifico vicino al Cerro Dragon © Philip Lee Harvey / Lonely Planet
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Quasi tutti i visitatori si imbarcano subito in una crociera per avvistare la fauna, ma a Santa Cruz si possono incontrare molti animali caratteristici delle Galápagos. “Adesso tutti sono contenti perché c’è una grande quantità di cibo ”, spiega Ramiro Jácome Baño, guida naturalista ufficiale del Parco Nazionale delle Galápagos. Siamo nella stagione calda e umida, un periodo di abbondanza. Baño indica le fitte macchie di erbe spuntate sul Cerro Dragón, una vetta vulcanica dal profilo appuntito che si staglia sopra antichi flussi di lava sulla punta nord-occidentale di Santa Cruz. “Fermo!”, mi dice con fare plateale, mentre un maschio di iguana di terra dalla pelle di un colore giallo acceso avanza spavaldo sul sentiero davanti a noi. Le iguane di terra e di mare delle Galápagos sono specie endemiche che secondo gli studiosi discendono da antenati comuni sbarcati qui dopo un lungo viaggio per mare. “Queste iguane si sono evolute dalle iguane verdi che si incontrano in Ecuador sulla terraferma”, spiega Baño. “Forse arrivarono qui a nuoto o, più probabilmente, galleggiando alla deriva sulla vegetazione”. 

Alla Charles Darwin Research Station di Santa Cruz è in corso un riuscito programma di salvaguardia ambientale. Oltre 3000 tartarughe giganti sono state allevate dal momento della nascita fino a raggiungere una dimensione che consenta loro di resistere agli attacchi di specie invasive come gatti, maiali o cani, introdotti sulle isole dai marinai di passaggio. Le giovani tartarughe vengono poi rilasciate nel loro habitat, dove possono raggiungere un’età di 200 anni. Oggi, nella calura del mezzogiorno, le si può vedere mentre riposano nelle pozze di fango della Reserva El Chato, simili a maestosi massi. Intorno a loro è tutto un viavai di animali molto più veloci, tra cui fringuelli di Darwin che si mettono in mostra tra loro, mentre gufi di palude li osservano dall’alto.

La variegata avifauna di Santa Cruz si può osservare anche al Finch Bay Eco Hotel, che si raggiunge da Puerto Ayora con una breve traversata in taxi d’acqua. Gli ospiti dell’hotel condividono il bar all’aperto con  mimi delle Galápagos a caccia di minuscoli gechi e la piscina con una famiglia di codoni guancebianche. Poco più in là si trova la spiaggia di Puerto Ayora, dove gli abitanti locali si rinfrescano su galleggianti gonfiabili oppure fanno snorkelling per avvistare animali altrettanto straordinari quanto quelli che vivono sulla terraferma. Basta allontanarsi di poco per vedere una tartaruga verde del Pacifico che si ciba di alghe e tre aquile di mare in formazione perfetta.

Baño lavora come guida del parco da vent’anni, ma la vita marina delle Galápagos riesce ancora a sorprenderlo. “Poco tempo fa mi si è avvicinata una manta”, racconta. “Aveva un pezzo di rete da pesca impigliato intorno alle corna. Mi ha permesso di levarglielo e poi è sparita negli abissi”.


Peter Grunert ha viaggiato in Ecuador grazie al supporto di Cox & Kings. I collaboratori Lonely Planet non accettano omaggi in cambio di recensioni positive.


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