Kirghizistan: il cuore nevoso dell'Asia centrale
Se non fosse per la sua difficile storia, il Kirghizistan sarebbe una meta sciistica alla pari con Verbier o Jackson Hole. Il nostro autore Kade Krichko ha sperimentato la sua neve tutta particolare grazie a dele guide esperte, ecco come è andata.

Le origini dell’aceto dei quattro ladri risalgono, si dice, all’epoca della peste, quando quattro ingegnosi malviventi inventarono una pozione che li proteggesse dal contagio mentre rapinavano i cadaveri dei loro averi. Barcollando un po’ stordito sui sentieri tra le cime della catena dei Terskey Ala kirghizi, comincio a pensare che il siero miracoloso possa addirittura riportare in vita le persone.
Poche ore prima, nella mia spessa yurta di lana, ero piegato in due con lo stomaco sottosopra e la febbre. Probabilmente giù a Bishkek avrei trovato cure mediche adeguate, ma erano sei ore di macchina. Ho passato dodici ore d’agonia con il fuoco scoppiettante come unico compagno, finché Ptor Spricenieks non ha fatto capolino nella tenda. L’eccentrico canadese col codino, ex professionista di freeski che ha girato tutto il mondo prima di stabilirsi a La Grave, in Francia, mi ha offerto un po’ della sua scorta di aceto dei quattro ladri, spremendone alcune gocce sulla lingua prima di passarmi una bottiglia d’acqua. Mezz’ora dopo i nodi che mi strizzavano lo stomaco si erano sciolti e la febbre era sparita. Infilati i pantaloni da sci, ho sollevato il lembo della yurta, sentendomi abbastanza vivo da mettere gli sci ai piedi ancora una volta.
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Ed eccomi a buttarmi oltre il ciglio su un ‘ripido’ chiamato Yahtzee, rinvigorito dall’aria fredda di montagna, guardando una distesa verticale di neve e roccia. Mi tuffo in una vellutata beatitudine di neve polverosa, pronto a sfidare ancora una volta le montagne kirghize.
Nell’economia globale il Kirghizistan – noto soprattutto per noci, lana e miniere di oro e uranio – è per molti versi a rimorchio (secondo la Banca Mondiale, in Asia centrale solo il Tagikistan è meno ricco). Lo sci, però, è diventato centrale nel tentativo di attirare investimenti stranieri per sostenere la nascente industria del turismo invernale.
Una delle mie guide, Ryan Koupal, ha colto il trend sul nascere: dopo anni passati a organizzare viaggi culturali nell’Asia centrale e occidentale, l’americano del Colorado è arrivato con la sua splitboard in Kirghizistan nel 2009, desideroso di esplorare terreni sciistici a lungo ignorati. Da quando, alla fine degli anni ’90, iniziarono le azioni di guerriglia di milizie uzbeke – che portarono al rapimento dello scalatore americano Tommy Caldwell – molti viaggiatori evitavano la regione. Anche se molti governi ancora sconsigliano la zona al confine meridionale, Koupal ha trovato tra le tante montagne del paese un regno di pace.
Il Kirghizistan possiede ben 158 catene montuose, che occupano il 94% della sua superficie. Gelide tempeste siberiane si abbattono sullo Issyk Kul, il secondo lago alpino più grande del mondo, creando un microclima simile a quello di Salt Lake City, nello Utah, e coprendo di neve fresca i pendii vicini, come Yahtzee, quasi ogni settimana. In Kirghizistan esistono ancora una ventina di stazioni sciistiche di epoca sovietica: pressoché invariate da decenni, ancora oggi accolgono soprattutto russi. Ma queste poche piste tracciate scalfiscono solo la superficie del reale potenziale sciistico del paese.

Il Kirghizistan è stato a lungo il crocevia dell’Asia centrale. Nel 1936 l’Unione Sovietica lo inglobò e ne fece la Repubblica Socialista Sovietica Kirghisa, unendo una popolazione etnicamente molto variegata sotto un’unica bandiera. Anche se la Cortina di Ferro è caduta nel 1991, ‘scheletri’ del regime sovietico ancora costellano il paesaggio: piazze cittadine con statue a grandezza naturale di Stalin e Lenin, segnaletica in russo ovunque nella capitale, Bishkek, e, su in montagna, le stazioni sciistiche. Infatti furono i sovietici che per primi si accorsero del potenziale di questa regione montuosa, costruendo i primi impianti negli anni ’70 e ’80.
Una di queste, sul Karakol, fu il terreno d’allenamento del team olimpico sovietico negli anni ’80, quando l’Urss fece un salto di qualità negli sport invernali. È stato qui, vicino al Karakol, nei monti Teskey Ala – parte della catena del Tien Shan – che Ryan Koupal vide un’opportunità: esplorare lo sconosciuto backcountry kirghizo. Dopo alcuni anni di ricerca sul campo e di contatti locali, ha fondato 40 Tribes Backcountry, un’esperienza di ‘freeride touring’ con servizio di pernottamento in yurta tra alcune delle montagne più isolate del pianeta. I primi anni sono stati un training di dinamiche culturali e perseveranza. Associatosi a Nurbek Kasym-Uulu, residente nell’area rurale di Jalpak Tash, nell’autunno del 2010 Koupal iniziò a spianare il terreno per una yurta, arredandola con oggetti dei bazar di Karakol e dintorni. Il primo inverno, nel 2011, Koupal e 40 Tribes ospitarono solo un gruppo, ma il seme era stato piantato nel fertile terreno kirghiso. Quello stesso anno Koupal imbarcò nell’impresa Ptor Spricenieks e, condividendo una visione peculiare del mondo dello sci, insieme hanno fatto crescere l’attività ben oltre il confine. 40 Tribes adesso organizza tour anche in Georgia, Svalbard, Cile, Groenlandia e nella penisola russa della Kamčatka. Famose guide internazionali, tra cui Eric Layton, Ty Mills e Jessica Taylor, hanno aiutato questa realtà a crescere, tanto che in anni recenti 40 Tribes ha iniziato a organizzare un avventuroso ‘Mystery Trip’ in sci e splitboard: progettato dal team, viene svelato agli ospiti solo dopo l’atterraggio. Nel 2022 un gruppo è arrivato fino a Istanbul prima di sapere che la meta finale sarebbe stata la Georgia.
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Per me, il legame con Koupal e il suo entourage di gente del posto ha significato un’esperienza radicata sul territorio, ma di lusso: con l’elicottero! I furgoni dell’esercito sovietico UAZ-452, riadattati, ci hanno trasportato per chilometri di strade di campagna, sgommando nel fango a marce basse. All’inizio del sentiero a piedi, abbiamo caricato la nostra attrezzatura su due cavalli da soma e ci siamo fatti strada fin all’accampamento di yurte.
Al campo base, Nurbek ci ha preparato dei pasti che andavano da un ricco borscht a un piatto di manzo e pasta dell’Asia centrale noto come laghman. Abbiamo fumato sigarette alla luce del pomeriggio e sorseggiato vodka mentre il fumo dei fuochi della cucina serale saliva dalla valle sottostante.
Il Kirghizistan ha anche una neve tutta particolare. Mentre taglio giù per lo Yahtzee, la neve fredda e asciutta scivola giù per il pendio come granelli di sabbia. A differenza della neve polverosa americana, quella kirghiza è abbastanza pesante da rimanere in superficie e le discese sono veloci e burrose in mezzo a piccoli ruscelli di neve bagnata. Nella valle, valanghe a debole coesione (con neve bagnata e mobile) sfregiano un anfiteatro intoccato, ricordandoci che anche un terreno da sogno va preso con le pinze.
Faccio in modo di tagliare per il pendio, lontano da un terreno irregolare pericoloso e verso il rendez-vous sulla morena con Spricenieks. Gli giro intorno e rallento fino a fermarmi, aspettando che la gravità faccia il suo dovere. Spricenieks sorride sotto la barba incolta. “Mi sembra di capire che l’aceto dei ladri ha funzionato?”, scherza il veterano scurito dal sole alpino riferendosi alla mistura potente che mi ha riportato in vita – e che, a quanto pare, era solo di origano, rosmarino, eucaliptus, chiodi di garofano e cannella. “Sei ancora vivo”. Inspirando profondamente la fredda aria di montagna, alzo lo sguardo alle mie tracce sulla neve e sorrido. Lo sono.