Sperduti al centro del mondo: i selvaggi Monti Tien Shan nel Kirghizistan
I Monti Tien Shan fanno letteralmente mancare il fiato. Non è solo l’altezza di questa catena plasmata dallo scioglimento dei ghiacciai, e neanche lo spettacolo delle loro vette illuminate dai raggi del sole nell’aria cristallina, quanto piuttosto l’eccitante consapevolezza di trovarsi nel luogo più lontano dal mare o dall’oceano di tutta la terra, circondati dalle ‘montagne celesti’ del Kirghizistan.

La bellezza dell’inaccessibilità
La catena dei Tien Shan, il cui nome deriva dal cinese tian shan– letteralmente ‘montagne celesti’ – è una sequenza di vette e valli che segna il confine tra la Cina e l’Asia centrale. La catena curva verso sud-ovest lungo il Kirghizistan, dove si incontra con il Pamir e l’Himalaya, che sale fino a raggiungere il punto più alto del pianeta.
Il polo dell’inaccessibilità continentale – il punto di un continente più distante dal mare o dall’oceano – si trova poche centinaia di chilometri a nord del luogo in cui mi trovo, in un’ampia valle nel Kirghizistan meridionale, a meno di 20 km dal confine con la Cina. L’Eurasia è il continente più grande del mondo, e il suo polo dell’inaccessibilità è il posto più lontano dal mare o dall’oceano di tutta la terra. Circondata su ogni lato da 2000 km di terre emerse, mi trovo allo stesso tempo al centro del mondo e nel posto più remoto che si possa immaginare.

In viaggio verso il cielo
Il mio viaggio verso questo angolo remoto delle montagne kirghise inizia con un tragitto in auto di cinque ore (quattro se l’autista corre, inclusa la pausa per il tè che è d’obbligo in tutti i viaggi in Kirghizistan) dalla capitale del paese, Bishkek, a Naryn.
In questa città di provincia, che si estende lungo il fiume omonimo per parecchi chilometri in una valle arida, carichiamo nuovi compagni di viaggio, sacchi a pelo, zaini e una bottiglia di cognac kirghiso (il migliore dell’Asia centrale, mi dicono).
La conversazione procede tranquilla durante il successivo tratto del viaggio, altre cinque ore e mezzo su un grosso SUV verso l’ambiente selvaggio dei Tien Shan.
Vasti altopiani si estendono verso montagne brulle incorniciate da cieli azzurrissimi. Sui pendii in entrambe le direzioni si vedono cavalli che brucano l’erba. La strada sobbalza su piste sterrate costruite dai sovietici per difendere il confine con la Cina.
Passiamo vicino a un pick-up parcheggiato coperto da un grosso strato di polvere e a un gruppo di nomadi con cappelli di pelliccia che fumano facendo una pausa prima di riprendere a radunare le mandrie di cavalli. La strada prosegue deviando ogni tanto su piccole piste laterali che gli autisti locali hanno tracciato tra gli jailoo (pascoli) per evitare le gobbe della strada principale, che viene livellata dal governo locale solo una volta all’anno. Qui è più facile guidare fuori strada.


Nelle yurte come i nomadi
Trascorro tre giorni in un campo di yurte nella Valle di Tuyuk Botomoymok, ma questo posto sembra essere fuori dal tempo. Attraversato da un basso fiume grigio-verde e circondato in ogni direzione da alte vette frastagliate, non ha neanche un albero o un cespuglio. Cerco di ricordare quanta strada dovremmo ripercorrere prima di rivedere una pianta. O di trovare campo per il telefono. Almeno quattro ore.
Cinque yurte sono disposte a semicerchio vicino a un vecchio vagone sovietico dove una famiglia kirghisa – padre, madre e figlia preadolescente – abita durante la bella stagione. Per guadagnarsi da vivere fanno affidamento sui pochi visitatori, quasi tutti stranieri, che ogni estate si spingono fino in questa terra remota. Adesso è metà settembre e stanno già iniziando a smantellare il campo per quest’anno. Stanotte è prevista neve.
In una yurta possono comodamente dormire cinque persone, ma siccome è fine stagione, io e il mio compagno di viaggio ne abbiamo una tutta per noi. Dopo aver appoggiato in giro zaini, bottiglie di acqua, cappelli e guanti, ci togliamo gli scarponi da trekking vicino a una stufetta a legna provvisoria installata per riscaldare la yurta e giriamo in calzini sui tappeti orientali disposti sulla nuda terra a fare da pavimento. Mancano ore alla cena, e l’unica cosa che si può fare è guardare le montagne fino al tramonto, e più tardi leggere alla luce (e al ronzio) di una singola lampadina alimentata da un generatore a benzina.
È sorto il sole. È difficile riuscire a dormire dopo l’alba, anche se attraverso le spesse pareti di feltro della yurta filtra poca luce preziosa. Il corpo umano avverte che è giorno e si sveglia secondo un ritmo naturale, con il sottofondo dei rumori della famiglia che appena fuori dalla yurta mette a bollire pentole d’acqua parlando a voce bassa, mentre in lontananza si sente il nitrito di un cavallo. Facciamo colazione a un tavolo allestito in una yurta vuota: grandi pagnotte di pane caldo e marmellata di frutti di bosco, fette di melone, uova fritte – le calorie per affrontare una fredda giornata di trekking.
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A cavallo verso terre remote
Uomini e cavalli convivono in questa terra da 2500 anni, e per raggiungere le remote zone interne del paese quasi sempre si ricorre a questi animali. I cavalli kirghisi, bassi, robusti e leali, fanno parte della famiglia, che li apprezza, li rispetta e se ne prende cura, aspettandosi in cambio che lavorino sodo.
Con i brividi di freddo, indosso vari strati di indumenti e scatto qualche foto mentre la batteria della macchina fotografica si sta congelando, poi mi avvicino ai cavalli, legati ad alcuni pali sgangherati vicino alle yurte. Indifferenti alla mattina luminosa e gelida, se ne stanno fermi con le zampe posteriori piegate mentre vengono sellati con coperte di feltro consumate, selle e poi altre coperte.
Mi offrono di scegliere il mio cavallo. Opto per un piccolo castrone grigio la cui tonalità scura indica che è un animale giovane. La cavalcata dura due ore lungo una valle marrone ricoperta di festuca e fronteggiata da frastagliate vette di scisto. Il padre della famiglia nomade, seduto comodamente sul suo vecchio cavallo, è la nostra silenziosa guida. Seguiamo un fiume color acquamarina, che a volte diventa un profondo laghetto di montagna e in altri punti si allarga in una serie di corsi d’acqua secondari poco profondi che scorrono tra un masso e l’altro per confluire in una palude semighiacciata.
Infine raggiungiamo l’estremità superiore della valle e lasciamo che i cavalli scelgano il tragitto con passo sicuro lungo un pendio roccioso che risale un antico flusso glaciale. Sulla cresta della montagna, una distesa d’acqua incorniciata dalle rocce: siamo arrivati a Köl-Suu, un lago in cui il livello dell’acqua può subire drastiche variazioni.

Il lago che può scomparire
Fino a qualche anno fa, nemmeno i locali conoscevano questo mitico lago, ma adesso a Köl-Suu inizia ad arrivare un piccolo numero di turisti e non è difficile capirne il motivo: con le sue acque turchesi circondate da frastagliate vette grigie, questo posto sembra appartenere a un’altra dimensione.
Comincia a cadere qualche fiocco di neve, quindi lasciamo pascolare i cavalli e prendiamo una barca a remi dall’aria alquanto precaria, remando contro una forte brezza su questo lago stretto e lungo. Secondo la gente del posto che si è spinta più avanti, il lago si addentra per 15 km verso la Cina, ma noi riusciamo solo a coprire un breve tratto sferzato dal vento, fino al punto in cui il lago curva verso sud, dove vediamo uno scorcio mozzafiato di un grande ghiacciaio che si ritira dal livello dell’acqua.
Torniamo al campo di yurte assorti in un silenzio meditabondo. Ogni tanto i cavalli trottano e la neve comincia a cadere più fitta, formando un velo bianco sulle gambe, le braccia e le selle.

Persi nella luce delle stelle
Verso mezzanotte sento il bisogno di una boccata d’aria, quindi esco dal mio accogliente sacco a pelo e mi metto gli scarponi, che grazie alla stufetta della yurta non sono ghiacciati. Infilo i lacci dentro gli scarponi senza curarmi di legarli, indosso un’altra giacca e una torcia frontale. Non appena sposto il pesante lembo della porta della yurta, l’aria gelida mi brucia negli occhi e sotto i piedi sento scricchiolare un sottile strato di neve ghiacciata.
Adesso il cielo è limpido e ci sono le stelle. Un numero sterminato di stelle, talmente fitte che intere costellazioni si perdono completamente in un cielo punteggiato da migliaia di scintillanti luci bianche. La torcia frontale è superflua: il bagliore celeste illumina il sentiero, che scende lungo un piccolo terrapieno fino a un gabinetto esterno per poi risalire verso il campo, ogni tenda delicatamente rischiarata dalla luce delle stelle.
Anche il mio compagno di viaggio è sveglio adesso, e tira fuori la bottiglia di cognac per difenderci dalle temperature sotto zero. Restiamo fuori dalla yurta e incliniamo la testa all’indietro per cercare di scrutare il firmamento. La totale assenza di inquinamento luminoso per centinaia di chilometri in ogni direzione fa sì che la Via Lattea sia una striscia di luce che si estende ininterrottamente da un’estremità all’altra dell’orizzonte, per cui è impossibile vedere tutto.
Rido con i denti che battono e dico che non riesco a vedere Arturo né Vega, né nessun altra delle stelle luminose che mi sono familiari, tutte oscurate in questo mare di stelle. Ce ne stiamo a bocca aperta per alcuni interminabili minuti, in silenzio, passandoci più volte la bottiglia, tremando di freddo e contemplando il cielo notturno.


Informazioni di viaggio
Il cordiale staff dell’ufficio del CBT (Community-Based Tourism) di Naryn può fornire autisti e organizzare soggiorni nelle yurte e trekking a cavallo a Köl-Suu. Nel 2017 è stato inaugurato in Kirghizistan un nuovo sistema di segnalazione dei sentieri che rende accessibili anche agli escursionisti indipendenti i trekking a piedi e a cavallo in tutto il paese.
Megan ha viaggiato in Kirghizistan grazie al supporto dell’USAID Business Growth Initiative Project e di #DiscoverKyrgyzstan. I collaboratori Lonely Planet non accettano omaggi in cambio di recensioni positive.