L’Holi Festival di Mathura, la perla nascosta dell’Uttar Pradesh
Qualche traccia della festa resta tutto l’anno: un grumo di colore sul marciapiede, uno schizzo arcobaleno su un muro, perfino un piccolo barlume negli occhi di un fedele che ve ne parla. Niente a che vedere con la folle frenesia dei giorni in cui si celebra il rito, ma certo un simulacro credibile, una traccia appunto. Il rito di cui stiamo parlando è l’Holi Festival e la città è Mathura, trecentomila abitanti, in Uttar Pradesh, sessanta chilometri a nord di Agra e centottanta a sud-est di Dehli.
Molti oramai chiamano l’Holi festival “il festival dei colori”, togliendo ogni connotazione spirituale all’evento e provando a trasformarla in un semplice “sabba” carnascialesco. Ma in realtà le radici di questa festa tradizionale, che cade il giorno di luna piena nel mese di Phalgun e segna pomposamente l’inizio del mese Chaitra, sono tra le più antiche della mitologia indù.
L’Holi Festival commemora la vittoria del bene sul male, in particolare il rogo e la distruzione di un demone femmina, un’orchessa di nome Holika. Suo nipote, Prahlad, era il figlio del Re dei demoni Hiranyakashipu: questi non sopportava che il proprio figlio venerasse il dio Vishnu più del suo stesso padre e per questo affronto lo punì con castighi atroci. Per finirlo definitivamente, la sorella del re, Holika, vestita di un mantello protettivo, tentò di uccidere Prahlad gettandosi nel fuoco insieme al nipote; il mantello invece protesse Prahlad, avvolgendo nelle fiamme la zia cattiva. Da questa leggenda, nasce la tradizione del fuoco di Holika che si celebra la notte prima di Holi: le famiglie indiane accendono dei piccoli falò chiamati Holi ka Dahan, a simboleggiare la vittoria del Bene sul Male, mentre decine di guru praticano il rito del camminare sulle braci per dimostrare di essere dalla parte delle divinità benevole.
Radha e Krishna sulle spalle
Dopo le fiamme arrivano i colori: il giorno successivo è il vero e proprio Holi Day.
Migliaia di persone inondano piazze, luoghi di culto, vie della città vecchia per cantare, danzare e contemporaneamente affrontare una vera e propria battaglia pacifica a colpi di ciprie colorate, tinture e qualsiasi cosa possa macchiare corpi e visi. Questa esplosione di gioia richiama i festeggiamenti per la sconfitta di Holika, ma l’uso delle polveri colorate è legato anche a Krishna, una divinità importante nel pantheon religioso indù, che a Mathura nacque nel Luglio del 3227 a.C.
Innamorato della bella Radha, dalla pelle candida e amareggiato per il colore scuro della propria pelle, Krishna decise di dipingersi il volto di tanti colori per rendersi più attraente e conquistarla. Il festival celebra l'amore di Krishna per Radha, bellissima gopī, pastorella del villaggio di Vṛndāvana che diverrà compagna eterna del dio. Proprio per questo durante l’Holi, le statue di Radha e Krishna vengono portate in processione nel centro della città su palanchi appositamente decorati. Gruppi di devoti se li passano a turno reggendoli e dondolandoli. Tutto intorno è il caos, un caos forsennato che grazie all’alcol e al bhang (una pasta a base di piante di cannabis che viene tradizionalmente consumata come parte delle celebrazioni) raggiunge vette di frenesia allucinata.
Lanciarsi le polveri colorate e coprirsi di colore significa anche annullare qualunque differenza etnica o sociale: un momento di gioia e comunione globale (quando non prende la deriva che ogni tanto prende anche a Mathura e diventa il pretesto per scatenare pulsioni sessuali violente o comunque moleste) che ricorda il Carnevale, soprattutto quello di tradizione medievale e quelli caraibici e sudamericani, che hanno avuto sempre anche questo addentellato di matrice egualitaria.
Nel 2019, il giorno dell’Holi è il 21 marzo, l’Holika Dahan il 20, ma a Mathura e nella vicina Vrindavan, dove il festival è atteso tutto l’anno, i festeggiamenti iniziano circa una settimana prima.
La Betlemme di Krishna
In India ci sono sette città sacre, il cui nome sanscrito è sapta puri, sapta sta appunto per sette e puri per città. Sono luoghi di pellegrinaggio chiamati anche thirtas, una parola sanscrita che identifica un “luogo o persona sacra”. E se è vero che i luoghi storicamente importanti per i fedeli sono tantissimi e distribuiti in ogni regione del paese, ce sono alcuni nevralgici per il percorso spirituale di ogni credente induista: Kanchipuram, Dwarka, Ujjain, Varanasi, Ayodhya, Mathura e Haridwar. Città sparse in cinque stati, mete di pellegrinaggi da parte dei fedeli indù che in questo modo aggiungono un tassello fondamentale nel cammino verso la moksha, ovvero la liberazione e l’affrancamento dal ciclo delle nascite.
È dunque il suo status di centro della spiritualità che fa di Mathura, “Betlemme” di Krishna, una tappa imperdibile, anche fuori dal clamore del festival dei colori. Eppure la città viene spesso disertata dai tour operator e perfino dai turisti e dai viaggiatori che si muovono in autonomia. Raj, il nostro rispettatissimo driver indiano (ogni europeo nutre un profondo rispetto per il proprio autista già dopo mezz’ora di viaggio in qualsiasi strada del subcontinente…) ci confessa che è la prima volta che accompagna dei viaggiatori a Mathura. “Ci sono andato spesso con la mia famiglia - dice - per compiere un pellegrinaggio con i miei cari. Ma non è mi è mai capitato di portarci viaggiatori o turisti fuori dal weekend dell’Holy Festival”.
Si sa, le trite dinamiche del turismo si lasciano irretire da una sorta di abitudinaria pigrizia, la stessa che spesso costringe i visitatori a vedere di Agra solo un monumento (sia pur splendido) come il Taj Mahal, lasciandosi sfuggire nella stessa città, un altro paio di capolavori come il Red Fort e il mausoleo di Itmad Ud Daula o la movimentata old city. Per quel che riguarda Mathura il malvezzo è ancor più grave, perché si finisce semplicemente per non includerla nell’itinerario, pur essendo una comoda tappa del viaggio che porta da Dehli ad Agra, o viceversa.
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Sulle rive dello Yamuna
Anche Mathura ha i suoi ghat (le scalinate che danno direttamente sulle acque) e il suo affollato lungofiume come Varanasi. In questo caso si tratta di uno degli affluenti del Gange, lo Yamuna, uno dei fiumi più inquinati del mondo e, anche se lo spettacolo delle abluzioni di fedeli e santoni e dei riti funerari all’alba e al tramonto non può essere paragonato a quello della città dei duemila templi, quello inscenato nel Vishram Gat o in uno degli altri venticinque ghat sulle rive dello Yamuna a Mathura, è comunque uno squarcio affascinante e memorabile, splendido intrico di templi, padiglioni, alberi, e gradinate che conducono all’acqua con la loro fauna di adepti.
I Templi e la loro storia intricata
Anche Mathura ha i suoi templi, che racchiudono i sogni mistici di religioni e culti diversi e, come a Varanasi, i templi sono in ogni dove, piccoli loculi e gigantesche architetture.
A dire il vero la storia del Jama Masjid è la storia di uno sgarbo. Il Moghul islamico Aurangzeb fece costruire nel 1661 questa moschea circondata da minareti di quasi cinquanta metri proprio nel punto in cui gli indù riconoscevano il luogo di nascita di Krishna. Per questo al suo fianco sorge oggi lo Sri Krishna Janmbhoomi, una piccola cittadella sacra che insieme allo Sri Dvarkandeesh Mandir e allo Shri Krishna Janmasthan costituisce una sorta di vero e proprio bastione induista della città. Una storia di afflato mistico e, insieme di rancore, se pensiamo che tra coloro che potrebbero reclamare crediti sul libro mastro della città, non ci sono solo indù e islamici, ma anche buddisti, tenutari fino all’VIII secolo di qualcosa come venti monasteri, tutti rasi al suolo da un condottiero afghano che non risparmiò neppure i santuari induisti.
159 piscine sacre
Anche Mathura ha i suoi kund, le piscine sacre circondate da scalinate in cui i devoti induisti vanno a fare le abluzioni. Ce ne sono quattro in città (in passato ce ne sarebbero stati addirittura 159), ma il più suntuoso è sicuramente il Potara Kund, il posto dove si racconta venissero lavati i vestiti di Krishna in giovanissima età. Si tratta di uno spazio imponente, costruito durante il periodo epico del “Mahabharata”, che si trova a poche decine di passi dal Sri Krishna Janmbhoomi ed è circondato da tanti altri templi minori.
La città dalle acque
Qualunque cosa stiate facendo, perfino se come noi nel frattempo, usciti dall’ultimo tempio, avete intrattenuto un piacevole incontro con un baffuto incantatore di serpenti (e di scorpioni), a un certo punto della giornata dirigetevi al fiume.
Lo scorcio più suggestivo, svela i suoi scalini incastonati tra palazzi ocra e mirabolanti archi gialli. Dopo aver “partecipato” alle pratiche tipiche del ghat con fedeli, santoni, maialini, cani, scimmie, venditori ambulanti, musicisti, perfino qualche vacca equilibrista, non escludetevi la possibilità di fare il giro in barca a cui decine di questuanti e scafisti vi stanno invitando da ore.
Prendere il largo e vedere la città dal fiume vi costerà solo 100 rupie (poco più di un euro). È un piccolo trip liquido che vale la pena fare, soprattutto al tramonto, per tendere una piccola imboscata alla città e osservare lo scenario del misticismo indiano come in un film. Munitevi di macchina fotografica, respirate profondo, ma fatevi passare la voglia di fare un bagnetto.
Valerio Corzani è presentatore e autore radiofonico, critico musicale, musicista, fotografo, reporter, globetrotter. Collabora con Radio Rai dal 1986; suona il basso dal 1976; scrive, fotografa e parla di suggestioni che incontra nei suoi viaggi. Adora i colpi di scena, soprattutto quelli che hanno a che fare con le latitudini e i fusi orari...