Di cosa parliamo quando parliamo di casa
In questi giorni, in cui siamo costretti a restare a casa in una surreale situazione causata dalla pandemia da coronavirus, viene naturale farci qualche domanda in più su che cosa sia una ‘casa’ e cosa significhi, per noi e per la nostra famiglia. Per contribuire a questa riflessione vi proponiamo un estratto del libro Si vive una volta sola.
Gli esseri umani sono naturalmente irrequieti. Oltre un miliardo di lavoratori internazionali attraversa la frontiera ogni anno, e 200 milioni di noi sono migranti, ovvero vivono al di fuori del loro paese di origine. La necessità di spostarsi sembra inscritta nel nostro DNA collettivo. Considerando tutto questo, il termine ‘casa’ potrebbe tranquillamente designare il cloud dove conserviamo le nostre fotografie, tanto quanto un indirizzo fisico o una nazione. Io sono un’americana di quarta generazione. Il mio bis-bisnonno, Peter Pearson, lasciò il villaggio di Tvååker, in Svezia, nel 1883, per cominciare una nuova vita negli anni del boom dell’industria mineraria e della lavorazione del legno a Tower, Minnesota. La leggenda vuole che i pini norvegesi fossero così alti in questa terra di frontiera da bloccare i raggi del sole.
Nell’estate del 1909 il mio bisbisnonno, la moglie Josephine, anche lei un’immigrata svedese, e i loro nove figli si trasferirono in una casetta 10 miglia a sud di Tower. La costruzione misurava 6 metri di lunghezza per 8 di larghezza e constava di un piano e mezzo: fatta di tronchi, aveva cucina e sala da pranzo al piano terra e una gigantesca camera da letto dal tetto molto basso al piano di sopra.
‘L’inverno era freddissimo; per non congelare dormivamo con la biancheria di lana e delle calze pesanti che arrivavano sopra al ginocchio’ scriveva il prozio Morrie nel suo diario. ‘Di sopra non c’era soffitto e il tetto non era isolato: le travi, bianche di brina, erano a vista. Quando la temperatura scendeva sotto i -40°C, i tronchi di pino si spaccavano, scoppiando come colpi di fucile’. L’estate era molto breve, e l’enorme orto forniva patate, cavoli, lattuga, carote, zucche e lamponi. A fine giugno il campo a est della casa si riempiva di migliaia di margherite, ranuncoli, fiori di castilleja. ‘La domenica, se era una bella giornata’, scriveva Morrie, ‘preparavamo un cesto da picnic e tutta la famiglia seguiva un sentierino fino alla cima di un monte, dove ci sedevamo sull’erba, mangiavamo il miglior cibo mai assaggiato e ascoltavamo gli uccelli e il vento intonare una melodia incantevole tra gli aghi di pino. L’odore pungente degli alberi si mescolava all’aroma dei manicaretti’.
È trascorso più di un secolo, e io vivo 1500 miglia più a sud, a Santa Fe, New Mexico. I miei genitori ancora passano le loro estati a 50 chilometri dalla casa di famiglia. Quando li raggiungo prendo la bici e vado alla casa del bis-bisnonno. Cade a pezzi. Infestata da topi e ormai distrutta, è stata dichiarata inagibile. Ma se arrivo al momento giusto i ranuncoli, le margherite, la castilleja in fiore invadono ancora il campo vicino. Sogno spesso di abbatterla e costruire al suo posto un cottage moderno, pieno di luce, per avere ancora un luogo a cui il nome dei Pearson sia legato. È un impulso irrazionale. Non ho mai vissuto lassù e non sono quasi mai andata a trovare il prozio Arnold, che l’aveva ereditata. Il Minnesota è l’antitesi della destinazione esotica, ma è il luogo dove ancora oggi sento un intangibile legame col passato della mia famiglia. E questo, per me, lo rende la destinazione più desiderabile di questo vasto, irrequieto pianeta.