India: il Rajasthan oltre gli angoli dorati

Uno stupendo, vorticante, fragoroso caos variopinto. La prima volta in India, l’insieme di odori pungenti, suoni, colori sgargianti da cui si ritrova improvvisamente avvolto, è per un europeo come l’emersione di un sommozzatore dopo lunghi anni di apnea. Improvvisamente ogni rumore è amplificato, le sensazioni, le voci e le stesse persone sembrano centuplicate, e il cervello fatica a star dietro alla quantità di nuovi input che lo tempestano.  Proprio per questo, nei racconti di un viaggiatore esterno l’India è spesso definita, con buona ragione ma anche con una certa approssimazione, per il suo disordine, per il trambusto delle sue strade, e per lo sconfinato guazzabuglio di persone, culti, animali e templi che la animano in ogni sua regione.

Jaipur, Rajasthan
Il traffico di Jaipur, Rajasthan ©Matteo Colombo
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Eppure, proprio nel Rajasthan del Golden Triangle, l’area compresa fra le città di Delhi, Agra e Jaipur, la più visitata (e la più rumorosa, secondo l’Annual Frontier Report del 2022 dell’UNEP) di tutta l’India, è ancora possibile trovare qualche angolo di tranquillità, dove poter prendersi una relativa pausa dalle vie brulicanti di persone, dal baccano delle contrattazioni dei negozianti, o dove quantomeno restare in disparte rispetto ai principali binari del turismo di massa.

Wudū’, Moschea di Jama, Delhi ©Matteo Colombo
Wudū’, Moschea di Jama, Delhi ©Matteo Colombo

Mandawa

Nel Rajasthan la vita non si aggroviglia solo sulla strada. Quasi in ogni città, non appena ci si avvicina a quartieri dove gli agglomerati di case si fanno più fitti, a pochi metri d’altezza, nelle vie fra le case assiepate corre una matassa ancora più confusa, ancora più inestricabile. Sono i fili elettrici, che ovunque si intrecciano, si accavallano, formando gomitoli e nodi di messaggi, notizie e chissà cos’altro.  

Anche nella città di Mandawa, e anche nel quartiere dove lavora Kamal, il ragazzo con cui ho negoziato un passaggio in moto e una breve visita. Nonostante il livello di autocontrollo necessario per riuscire a venire a capo di quell’inferno di cavi, fili e cordoni di cui lui è maestro (è un elettricista), a Mandawa è tutt’altro che impossibile ritagliarsi momenti di tranquillità. 

Addossata all’aspro e aridissimo territorio dei Monti Aravalli, un tempo la città era stata un avamposto fondamentale sulle rotte carovaniere fra Estremo e Vicino Oriente, arricchendo una folta casta di mercanti per tutto il XVII secolo. Cresceva il traffico di spezie e stoffe, cresceva lo sfarzo delle abitazioni dei mercanti, presto trasformate in veri e propri palazzi, conosciuti come Haveli. 

Col tempo, i traffici che avevano rapidamente fatto la fortuna di Mandawa diminuirono per la perdita d’importanza della Via della Seta, che trascinò via con sé lo splendore della città e dei suoi Haveli, di cui ancora oggi restano le sfarzose strutture. 

Oggi la maggior parte di queste abitazioni sono state riconvertite in hotel, o semplicemente abbandonate a sé stesse e a una lenta decadenza, ma alcune restano visitabili, raccontando con le loro sculture e i numerosissimi affreschi di maharajah, carovane, vedute di città remote come Venezia, e nei dipinti più tardi persino di grammofoni, automobili e aeroplani. Un piccolo museo a cielo aperto, una normalissima casa per Kamal e i suoi quattro bambini, cresciuti tra immagini di Ganesh e scene di vita londinese dell’Ottocento.

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Un cervo pomellato nel Parco di Ranthambore©Matteo Colombo
Un cervo pomellato nel Parco di Ranthambore©Matteo Colombo

Sawai Madhopur, Rantambhore

Sí, in India ci sono i cervi. R, naturalista di professione nel Parco Nazionale di Ranthambore, mi dice che spesso i turisti sono stupiti dall’enorme quantità di cervi presenti all’interno della riserva. E ride di gusto, lui che ogni giorno ne vede a decine, divertendosi agli “oooh” meravigliati dei turisti, occidentali e indiani. In effetti, non è certo un bel parco di corna la prima immagine che guizza davanti ai nostri occhi se pensiamo all’India: nel nostro immaginario è parte di tutto ciò che è “esotico”, di quel vagamente “tropicale” che abbiamo imparato ad associare a foreste lussureggianti, animali variopinti e bizzarri, sconosciuti ai nostri boschi. Gli ungulati sono roba da Appennino o da foreste del Nordamerica: dopo un secolo e mezzo, Kipling continua a gettare la sua lunga ombra sull’India, per cui tutto ciò che non è stato incluso nel Libro della Giungla è destinato a restare fuori dal paese, almeno per come lo prefigurano le nostre menti. Se poi pensiamo che in India il 90 per cento della popolazione non è mai riuscita a vedere il Taj Mahal, anche il loro stupore per gli ungulati è più che comprensibile. D’altronde, i visitatori vengono a Sawi Madhpur per il parco di Ranthambore. E nel Ranthambore entrano per le tigri

A decine, si lanciano in enormi, fracassone jeep-pulmino scoperte, infilandosi fra le foreste del parco cercando di avvistare qualche gattone. Solo i più fortunati (e ricchi) possono godersi un po’ di autentica serenità, seminando i tapini sui pulmini a bordo di jeep private, permettendosi anche di inseguire le tigri negli angoli più remoti - e sereni - della riserva.

Come nel parco non ci sono solo le tigri, mi dice, ma anche coccodrilli, cervi, rapaci, pavoni, cosí Sawai Madhopur non è solo “la porta del Ranthambore”, ma una città con i suoi templi e i suoi abitanti, per quanto attraversata dai turisti senza che questi spesso la degnino di uno sguardo.

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Mohammad finisce l’ultimo sorso di masala chai (té indiano aromatizzato con un mix di spezie, e mescolato al latte) e mi accompagna a tempio jainista di Chamatkarji. Secondo la leggenda, mi dice, il tempio apparteneva a un contadino che trovò l’idolo di Rishabhanatha in un suo campo, dopo che questi gli era apparso in sogno. Nella sua apparizione il dio disse al contadino dove avrebbe ritrovato l’idolo, e di riporlo in un carro trainato da un cavallo: il tempio sarebbe sorto lí dove il cavallo si sarebbe fermato. 

La struttura non è particolarmente appariscente, ma attorno ha un piccolo capannello di persone, tutte apparentemente molto interessate e tutte vestite di bianco: monaci e monache jainiste. Hanno delle piccole mascherine, anche quelle bianche, davanti alla bocca, ma non è per il Covid. Il jainismo segue il principio della non-violenza assoluta verso ogni vivente, e la mascherina è un modo per preservarsi dal rischio di ingerire inavvertitamente piccoli insetti. L’atmosfera attorno al tempio è molto tranquilla. R mi dice di aver visto per anni membri della sua famiglia raccogliere le piume di pavone per le loro scope: piume che fossero state perse naturalmente dai loro proprietari, e scelte appositamente perché talmente soffici da non poter nuocere ad alcun insetto durante il loro utilizzo. Decisamente piume non-violente.

È uno dei motivi per cui ha scelto di diventare un naturalista. Se si accorgono di poter guadagnare molti più soldi dal portare stranieri ad ammirare animali nel proprio habitat, forse un giorno gli indiani smetteranno di sterminarli, mi dice. Non sembra neanche troppo convinto. Per quanto stia crescendo, la popolazione di tigri nel 2021 ha perso 127 esemplari (fonte: WPSI, Wildlife Protection Society of India), il numero più alto dal 2007, anno da cui viene compiuto un monitoraggio capillarei: di queste morti, 35 riconducibili al bracconaggio e al mercato di pelli. 

C’é ancora molta strada da fare, mi dice. Poi lasciamo la città e le silenziose piume di pavone, e entriamo anche noi nel Ranthambore, alla volta di cervi, tigri e jeep sferraglianti.

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Taj Mahal
Taj Mahal, Agra ©Matteo Colombo

Jaipur

Caotica, colorata, inquinata, turistica e meravigliosa, Jaipur sembrerebbe l’ultimo posto dove trovare qualcosa che non sia già stato setacciato, riformato e cambiato nel nome delle aspettative dei suoi pullman di visitatori. Il traffico segue a volte più un diritto consuetudinario che un vero codice della strada, riaggiornando le proprie regole con la velocità con cui si refresha la pagina di un social network. Automobilisti e passanti si incrociano, si accavallano, si sorpassano e schivano sempre il prossimo, auto, mucca o tuk-tuk che sia, all’ultimo secondo, sfiorando sempre il disastro: il tutto senza battere ciglio, non capisci se perché hanno sapientemente calcolato tutto al centimetro, o più probabilmente perché in fin dei conti non gliene importa assolutamente niente. Eppure, proprio vicino i mercati di Jaipur, è possibile trovare un momento di realtà quotidiana. 

A pochi passi dal complesso di Jantar Mantar, patrimonio UNESCO, all’interno del City Palace di Jaipur si trova Il tempio di Govind Dev Ji, dedicato a Krishna e alla sua consorte Radha. L’idolo al suo interno sarebbe l’esatta replica del volto del dio, e sette volte al giorno il velo che copre l’immagine di Krishna viene rimosso, affinché migliaia di devoti si riuniscano per gli aartis, rituali hindu. È difficile descrivere l’intensità e il trasporto sprigionato da queste celebrazioni, che restano una maniera spontanea e non mediata di fare capolino, almeno per qualche momento, nella quotidianità della cultura locale. L’accesso durante la celebrazione è permesso anche ai non fedeli, e non è richiesta alcun biglietto per l’ingresso. Canti, musica e luce - sotto forma di fiamma - sono offerti agli déi, in un crescendo di euforia collettiva, fin dal primo aartis, a cui in estate più temerari possono assistere alle 4 e mezza del mattino.

Assistere al rito significa dimenticarsi per un po’ del frastuono assordante di Jaipur, e una volta terminato, si possono infilare di nuovo calze e le scarpe, per tornare al traffico e ai clacson della città. Forse sembreranno un po’ meno fastidiosi.

Holi festival alla periferia di Jaipur ©Matteo Colombo
Holi festival alla periferia di Jaipur ©Matteo Colombo
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