Alter ego Patagonia

Redazione Lonely Planet
8 minuti di lettura

Sulle tracce di emigranti ed avventurieri che cercarono la replica perfetta dell’Europa tra i remoti laghi della Patagonia Argentina.

La vista del Llao Llao hotel dal lago Perito Moreno al lago Nauel Huapi nella Patagonia settentrionale © Philip Lee Harvey
La vista del Llao Llao hotel dal lago Perito Moreno al lago Nauel Huapi nella Patagonia settentrionale © Philip Lee Harvey
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Negli anni trenta la borghesia di Buenos Aires si trovò ad affrontare un dilemma. Arricchita dai profitti di una nazione ancora giovane, era abituata a stravaganti vacanze in Europa: ciondolava lungo le rive del lago di Como e trascorreva l’estate a St Moritz per divorare cioccolato e respirare la frizzante aria alpina. Ma l’estremismo e l’evolversi del secondo conflitto mondiale la costrinsero a guardare altrove. In quel periodo l’architetto Alejandro Bustillo ideò una soluzione innovativa: invece di portare gli argentini in Europa decise di ricreare un lembo di raffinatezza in stile europeo in una delle zone più selvagge dell’Argentina, un Lake District a quasi 1.500 chilometri a sud-ovest di Buenos Aires. È il punto in cui il deserto di ghiaia si proietta verso le cime innevate delle Ande. Territorio di laghi dai fondali inesplorati e dalle vette inespugnate, in una bella giornata potrebbe essere scambiato per st Moritz o Zermatt. 

Su un piccolo promontorio Bustillo si mise a progettare un resort che potesse competere coi Ritz del Vecchio Continente. Sarebbe stato dotato di un campo dove i “baroni” del manzo argentino avrebbero armeggiato con le mazze da golf e seguito con lo sguardo le palline tuffarsi nei laghi ghiacciati. Sarebbe stato dotato di boutique dove le loro mogli avrebbero potuto comprare abiti costosi. E di una cappella per poter confessare la propria avarizia. Ci sarebbe stata una sala da ballo in cui gli ospiti avrebbero potuto ballare sotto i lampadari nella folle notte danzante andina. L’Hotel Llao Llao sarebbe stato un’enclave urbana in una delle grandi aree remote del mondo. “La Patagonia è diventata sinonimo di lontananza. È la parola che ancora oggi attira gli ospiti. Il senso di vastità, la neve in inverno, i colori in autunno” spiega Guillermo Bianchi, un manager che lavora nell’hotel da diciotto anni. 

Con ottant’anni suonati alle spalle Llao Llao è l’hotel più famoso di tutta l’Argentina, visitato da innumerevoli capi di stato e raffigurato sulle banconote nazionali. Molto è accaduto da quando ha aperto le porte per la prima volta nel 1938. L’anno successivo è stato ridotto in cenere – colpa, si dice, di qualcuno che ha dato fuoco a un pannolino – come le sue fairway, sepolte da scorie vulcaniche. Eppure l’hotel di Alejandro Bustillo ha mantenuto lo stesso aspetto di sempre. Dalle pareti di legno scuro gravano sugli ospiti branchi di corna, lunghi corridoi si perdono di vista, camerieri in smoking servono gulash fumante, grandi finestre si affacciano su paesaggi aspri che potrebbero superare quelli del Vecchio Mondo in quanto a bellezza: pareti di roccia si tingono di rosa nella luce obliqua, in tempo per il tè pomeridiano mentre le ombre delle nuvole corrono verso est fino al deserto. 

La cappella del Llao Llao hotel ©Philip Lee Harvey
La cappella del Llao Llao hotel ©Philip Lee Harvey

Llao Llao è stata la struttura che ha dato il via all’era dorata del turismo nel Lake District. Ha attratto i vacanzieri argentini bisognosi di recuperare le energie e i brasiliani che volevano vedere la neve. C’erano anche immigrati provenienti da zone ancora più remote, per loro questo territorio intatto prometteva un nuovo inizio. Chiunque cerchi in rete una vacanza in questo Lake District probabilmente si imbatterà in immagini di un uomo anziano che si gode il soggiorno nella città lacustre di Bariloche. In alcune si dondola su una sdraio sorseggiando vino argentino, in altre è in giro con una ragazza brasiliana mentre si rilassa nella propria villa (progettata dallo stesso architetto Bustillo). In alcuni casi ha la barba, in altri è rasato e nelle occasioni speciali porta i baffetti. “C’è gente che arriva aspettandosi di vedere Hitler”, dice lo storico locale Hans Schulz, mentre beve una birra in una taverna di Bariloche. “Significa che un’ombra scura incombe in qualche modo su questa città”. 

I complottisti raccontano che fu qui che Hitler fuggì dal bunker berlinese negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale. Un mito che ancora oggi porta a Bariloche un flusso costante di fantasisti, sperano di scorgere un centotreenne Führer nel supermercato locale, intento a rifornirsi di salsicce vegetariane. Per quanto falsa possa essere questa storia, alcuni veri criminali di guerra nazisti sono effettivamente fuggiti a Bariloche dopo la seconda guerra mondiale, un passato esplorato da Hans durante i tour della città. Ci fermiamo in un edificio giallo senape di fronte a una pizzeria: si tratta della casa dell’Hauptsturmführer Erich Priebke, un comandante delle SS che un giorno di primavera del 1944 ha supervisionato l’esecuzione di 335 civili a Roma. Priebke come molti altri credeva che il passato non avrebbe mai potuto ritrovarlo nell’Argentina più remota. È stato rintracciato da una troupe televisiva americana circa cinquant’anni dopo e consegnato alla giustizia: ha concluso i domiciliari morendo nel 2013 nella Città Eterna, all’età di cento anni. “La generazione più giovane non aveva idea di cosa avessero fatto questi tizi”, spiega Hans, i cui genitori hanno ospitato Priebke a cena. “Sembravano i pilastri della comunità, erano in realtà come la mafia”. L’eredità germanica di Bariloche va oltre i nazisti fuggitivi. Fondata nel 1902 da un commerciante tedesco, la città attirò all’inizio del Novecento emigranti da tutta l’Europa centrale: persone che speravano di costruire nuove Svizzere e nuove Slovenie nella terra di puma e condor. Ancora oggi sembra un villaggio mitteleuropeo trasportato sulle Ande.

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Un San Bernardo a Bariloche © Philip Lee Harvey
Un San Bernardo a Bariloche © Philip Lee Harvey

Altrove ci sono estancias scozzesi, agricoltori sudafricani, negozi di tè gallesi e gente con cognomi come Jones e Roberts che conosce tutte le parole dell’inno del Galles ma non ha mai attraversato il vallo di Offa (Clawdd Offa, il terrapieno tra il Galles e l’Inghilterra occidentale, ndt). Anche se la sua famiglia non vive in Germania da prima della Grande Guerra, Hans parla correntemente il tedesco, legge Der Spiegel ed è cresciuto ascoltando il cinguettio di un orologio a cucù e godendosi il profumo di pino del Tannenbaum a Natale. Conosce anche il testo di 99 Luftballons (un brano pacifista degli anni Ottanta, ndt). “C’è qualcosa nella mentalità argentina che mantiene vive queste identità. Però più che tedesco o argentino mi sento patagonico: essere umani in questi vasti paesaggi trascende la nazionalità” spiega. La Patagonia non è una regione con confini definiti, è piuttosto uno stato d’animo. Strade dritte verso orizzonti irraggiungibili, deserti e lunghe tratte tra una pausa per la toilette e l’altra. Una Siberia sudamericana con pinguini. Si dice spesso che questo è stato l’ultimo angolo del pianeta che gli esseri umani hanno raggiunto dopo aver iniziato la migrazione dall’Africa tra il 70.000 ed il 50.000 a.C. La punta della Patagonia potrebbe essere stata la fine della strada per l’Homo sapiens fino a quando Neil Armstrong ha posato il piede sinistro sulla luna. 

Vista del Cerro Catedral, il più grande centro sciistico dell’emisfero sud nei mesi invernali. © Philip Lee Harvey
Vista del Cerro Catedral, il più grande centro sciistico dell’emisfero sud nei mesi invernali. © Philip Lee Harvey
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Una strada piena di buche mi porta da Bariloche al cerro Catedral. Scelgo un sentiero che va verso le colline e gli strudel di mele di Bariloche sono già un ricordo lontano. Più in alto la macchia di cespugli si trasforma in fitti boschi di cedro e faggio, mirto e coihue. Un camminatore solitario emerge dal bosco, passa con un “buenas tardes”. I colibrì sfrecciano tra i boschetti ma perlopiù i sentieri sono silenziosi. Il vuoto della Patagonia ha uno strano potere allucinatorio, Adolf Hitler è uno dei tanti miraggi qui.

Nel lago Nahuel Huapi sotto Cerro Catedral vive Nahuelito, cugino del mostro di Loch Ness. Alcuni zoologi credono che si tratti di un plesiosauro vivente, un contemporaneo dei dinosauri. Molti sono andati alla ricerca di Ciudad de los Cesares, una città patagonica errante visibile solo fugacemente: le sue glorie vengono dimenticate dai visitatori appena varcano le porte. Un camino sbuffante appare in mezzo alla natura selvaggia. Il Refugio Emilio Frey è una delle tante strutture alpine sparse in questo angolo delle Ande. Il passato di Bariloche comprende cioccolatini, fondue, torte, birra pilsner e cani San Bernardo ma l’alpinismo è forse l’eredità di cui va più orgoglioso. Nel 1931 alcuni abitanti di Bariloche formarono il Club Andino Bariloche, una società alpinistica dedita alla conquista delle Alte Ande. Hanno portato l’esperienza delle Dolomiti e dell’Oberland bernese, ramponi e piccozze, cappelli tirolesi e ardimento. E si sono cimentati nella scalata delle vette. In estate i soci costruirono case d’alta quota come i vecchi rifugi alpini, in modo che tutti potessero condividere il grande amore teutonico per la vita all’aria aperta. Il rifugio è dotato di una stufa, una piccola cucina, materassi e un gatto domestico incaricato di catturare i topi (e portato su per i 1700 metri di altezza tra miagolii di protesta). Gli ospiti sono di tutti i tipi, scalatori stagionati e famiglie impegnate su sentieri lievi.

Il Rifugio Emilio Frey © Philip Lee Harvey
Il Rifugio Emilio Frey © Philip Lee Harvey

Il buio richiama l’attenzione mentre boccali di birra tintinnano al caldo. Fuori i pinnacoli delle montagne sono incorniciati da un cielo stellato: in queste costellazioni le tribù andine hanno disegnato effigi di divinità. Il rifugio si fa presto silenzioso, eccetto per il russare degli ospiti, le fusa del gatto e lo strepitio del vento. Non a caso la Patagonia attirò nazionalità particolari: scozzesi che conoscevano la durezza delle Highlands, gallesi abituati a piogge incessanti, tedeschi che conservavano un ricordo ancestrale del vagare per foreste e monti. Capirono che questa terra dura non era la fine della strada ma l’inizio di una nuova.

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Questo articolo è stato pubblicato su Lonely Planet magazine Italia, la rivista bimestrale per viaggiare nel mondo Lonely Planet. Vuoi saperne di più? Clicca qui.

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