Le Svalbard in motoslitta
Più ci si inoltra nell’implacabile natura selvaggia artica, più si è vulnerabili. Un tour in motoslitta sull’isola di Spitsbergen, nel remoto arcipelago delle Svalbard, è un emozionante viaggio nell’ignoto. Lo ha fatto per noi l'autrice Amanda Canning e qui trovate il suo racconto di viaggio.
Quando l’arcipelago delle Svalbard appare per la prima volta, dopo un volo di tre ore in direzione nord da Oslo, è subito evidente che questo è un mondo a parte. È ancora una terra dove ad avere la meglio è la natura, non l’uomo. Bianche cime triangolari si alzano sopra ampie valli bianche. Dietro di loro altre cime e altre valli. E ancora e ancora, fino a perdersi in un orizzonte nebbioso.
Non si vede traccia di vita, neppure un fazzoletto di terreno che la supporti. Dal mio sedile accanto al finestrino, le Svalbard sembrano di una dimensione e di una vuotezza tali da essere difficili da afferrare. Da molto tempo, sin da quando fu scoperto ufficialmente, nel XVI secolo, questo arcipelago norvegese così lontano, al 74° parallelo nord, attira come un magnete curiosi e spericolati. Per me, il fascino sta nel fatto che è cambiato così poco da allora. I pionieri avevano un unico scopo: depredare il mare della sua ricca fauna, da balene a foche a trichechi, e cacciare i suoi orsi polari, le volpi e le renne. Nel Novecento un’altra ricchezza dell’arcipelago attrasse l’attenzione: il carbone. Oggi, la ricompensa che si ottiene non proviene da ciò che si può cacciare o scavare, ma dal semplice godimento di uno degli ambienti naturali più puri del mondo.
Longyearbyen, dove atterra l’aereo, è l’unico insediamento di una qualche grandezza. Sedicenti esploratori arrancano lungo la via principale, facendo provviste e chiedendosi se comprare qualche indumento termico in più. Nonostante gli orpelli della civiltà, si è sempre coscienti del fatto che qui gli umani sono fuori posto. In inverno la temperatura scende anche a -25°C, il sole non sorge per almeno tre mesi l’anno, e per paura degli attacchi degli orsi è proibito uscire dalla città senza una guida armata. La mia guida, Nils, ha quella stretta di mano che stritola tipica di un uomo che sa quel che fa.
Stiamo per imbarcarci in un viaggio in motoslitta nel mezzo del nulla, quindi il pensiero è rassicurante. Gli umani hanno trovato diversi modi per muoversi sulla terra impervia delle Svalbard – tra cui con slitte tirate dai cani e in sci – ma la motoslitta ci dava l’opportunità di andare più lontano e di attraversare alcune di quelle fantastiche cime e valli. L’idea era di viaggiare tutto il giorno e dormire in un accampamento remoto.
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Quando lasciamo la città le nuvole degli ultimi giorni si sono sollevate e il sole splende. Viaggiamo lungo l’ampia valle glaciale di Adventdalen circondati da ogni lato da montagne torreggianti, le creste che spiccano contro il cielo blu. Le tracce di vita umana svaniscono.
Nils ci guida attraverso una spaccatura nella roccia e quando ne emergiamo ci troviamo in cima a una montagna. Davanti a noi si allarga il delta fluviale ghiacciato del Sassendalen, in lontananza macchie scure di morena. Nel momento in cui entriamo a balzi nella valle successiva, il tempo cambia e le Svalbard diventano mistiche. La neve comincia a turbinare intorno a noi e in lontananza appaiono minacciose nuvole nere.
Al Tempelfjorden arriviamo alla capanna che fu di uno dei più resilienti residenti dell’arcipelago. Il cacciatore di pellicce Hilmar Nøis costruì qui la sua casa nel 1912 e vi rimase per 38 anni. È poco più di un capanno, con le pareti ricoperte di un manto erboso e legno di recupero, e giù nella baia scivolano masse di ghiaccio grandi come un’auto. Nel mezzo dell’inverno, la prima moglie di Hilmar, Ellen, diede alla luce il loro primogenito tutta da sola. Hilmar era andato con gli sci a Longyearbyen a cercare un dottore. “Per il maltempo ci vollero tre settimane per tornare indietro”, mi spiega Nils. Abbiamo poco tempo per pensare alla desolazione della povera Ellen: per raggiungere il nostro rifugio prima di notte, dobbiamo proseguire. Attraversando la morena fino alla cima del ghiacciaio di Rabotbreen, schiviamo blocchi di ghiaccio grandi come palazzi, la loro superficie liscia come marmo. Sospesi all’interno piccole pietre e bolle d’aria, ricordi dell’ultima era glaciale. Ci fermiamo di nuovo al mare gelato di Mohnbukta, dove l’orlo del ghiacciaio è alto sei piani, un muro di ghiaccio blu segnato da solchi neri e bianchi.
Mentre mi riposo sulla motoslitta mangiando una porzione di spaghetti alla bolognese reidratati, Nils fa la guardia: ci potrebbe essere un orso accovacciato dietro a una roccia che sta decidendo se siamo delle prede. Quelle masse informi bianche in lontananza sono grumi di neve spazzati dal vento o un predatore che si avvicina? Poi Nils riceve una chiamata alla radio: il nostro accampamento è stato spazzato via dalla tempesta. Non abbiamo altra scelta che far ritorno a Longyearbyen prima che arrivi l’oscurità e il freddo artico. Ma, realisticamente, non restano abbastanza ore di luce: anche il pragmatico Nils sembra moderatamente ansioso. Con nessuna concessione alla mia poca esperienza in motoslitta, parte come un pilota di Formula Uno, mentre le nuvole si chiudono intorno a noi.
Nelle tenebre, scorgo a malapena le luci sul retro del veicolo. Passano ore prima che Nils acconsenta a una breve pausa. Siamo in cima a una montagna proprio quando le nuvole si aprono. Gli ultimi raggi del sole gettano un sortilegio sul paesaggio – sotto di noi la valle è bagnata da una luce rosa, le cime luccicano di un azzurro pallido. Abbiamo ancora molte miglia da percorrere, ma quella vista ci dà nuovo entusiasmo. Mentre acceleriamo, sorge una luna enorme. Rimane appesa all’orizzonte per un’ora prima di scendere dietro le montagne. Continuiamo nell’oscurità assoluta, il cielo limpido e pieno di stelle. Quando da lontano si vedono le luci di Longyearbyen è un sollievo, ma mi dispiace essere già tornata. I nostri progetti falliti, le braccia e il collo dolenti, il cervello in pappa dopo tante ore sulla sella dimostrano chi detiene il potere qui – proprio il motivo per cui sono venuta alle Svalbard.
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