Viaggio da sola in Myanmar seguendo l’Irrawaddy
Non avevo altri programmi se non quello di percorrere il Myanmar, in viaggio da sola, ispirata dalla mia passione per i fiumi. E così ho deciso di seguire la corrente dell’Irrawaddy a bordo di imbarcazioni pubbliche. Un viaggio senza orari, da Nord a Sud, fino a raggiungere Mawdin Point, dove il delta diventa mare. È stato un salto indietro di cent’anni, lontana da qualsiasi certezza e familiarità. Per quanto mi riguarda, per sempre ci sarà un prima e un dopo quest’avventura, che mi ha lasciato un senso profondo di compimento e fiducia nell’ignoto. Come sempre mi accade nelle mie esperienze solitarie.
Destinazione Bhamo. In volo verso l’incertezza
Il mio viaggio sull’acqua è iniziato dal molo di una cittadina fluviale dello Stato del Kachin, nel Nord della Birmania. Bhamo è un’oasi di tranquillità immersa in un verde imponente. File di barche variopinte si riposano all’ombra di alberi le cui fronde sfiorano l’Irrawaddy e ogni mattina, tra le sei e le otto, c’è un vivace mercato lungo l’argine. Sulla carta è un posto idilliaco ma sull’aereo da Yangon il mio umore era cupo. Le informazioni sugli spostamenti in quel remoto tratto di fiume erano poche e discordanti. Non sapevo ancora se avrei trovato una barca diretta a sud, o se invece sarei rimasta confinata lì, chissà per quanti giorni
Situazioni come queste, in cui sapete che se qualcosa va storto non ci sarà nessuno con cui condividerlo, sono impegnative da vivere in un viaggio solitario. Ma sono quelle in cui scoprite che da soli siete più forti e determinati. Quindi, a meno che non stiate rischiando la vita, la cosa migliore è seguire il percorso che vi chiama, anche se fa paura. Con la fiducia che troverete sempre chi vi darà una mano, specialmente se viaggiate da soli. A Bhamo me l’ha tesa un’impiegata dell’hotel che mi ha guidata fino alla biglietteria e fatto da interprete così che il giorno dopo ho salutato la terra ferma da quella che i birmani si ostinano a chiamare fast boat. Uno scafo consunto dal tempo e dalla ruggine che ha impiegato 7 ore per coprire i 130 chilometri che mi separavano dalla città di Katha. E che ha celebrato la nostra partenza con il suono di una sirena che ha fatto tremare anche il placido Irrawaddy.
Beata solitudine sul tetto della fast boat
Navigare lungo il fiume Irrawaddy è un’esperienza contemplativa. Ogni tanto, lungo gli argini, spunta la guglia aguzza di un piccolo stupa o la sagoma di un pescatore e del suo cappello a cono. Qualche volta si scorgono una chiatta che risale il fiume o banchi di sabbia bianchissima sui quali si arenano le imbarcazioni nel picco della stagione secca, trasformando un tragitto di poche ore in epopee di giorni. In altre parole in un viaggio sull’Irrawaddy non succede (quasi) mai niente. Ma se c’è una cosa che unisce tutti i viaggiatori solitari, è saper stare bene anche quando non c’è molto da fare se non… viaggiare. Poca importa che si tratti di partire per un weekend o per un mese: se siete un solo traveler avrete sempre con voi un libro, una buona colonna sonora e un taccuino; feticci che vi saranno utilissimi nei bar, nei ristoranti o nei lunghi tragitti.
Sulla barca da Bhamo a Katha ero l’unica straniera tra decine di birmani che parlavano solo birmano. Ero contenta di stare per conto mio, seduta sul tetto in lamiera, a godermi l’armonia che provo ogni volta che viaggio da sola. Guardavo scorrere il paesaggio annotando descrizioni e sentimenti su un quaderno per il quale quasi mai, quando parto con il mio compagno, trovo tempo e ispirazione. Ero incantata dai visi birmani disegnati dal thanakha (l’impasto giallo con cui si proteggono la pelle); dalla grazia delle donne in infradito di velluto e la tuta con gli orsacchiotti; dalla normalità con cui gli uomini indossano una gonna che chiamano longyi. Ma più di tutto, amavo quel fare annoiato con cui guardano il fiume, tipico di chi lo ha già percorso decine di volte. Era la prova che mi trovavo nel cuore più autentico della Birmania.
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L’uomo che aspettava Bagan
Ho conosciuto Dámaso sul ponte della nave per Bagan mentre, con un caffè caldo tra le mani, guardavamo allontanarsi Mandalay. Le nostre impressioni sulla città erano talmente lontane che sembrava fossimo stati in due posti diversi. Dámaso, spagnolo, faceva parte di un chiassoso gruppo organizzato che, a suo dire, aveva annientato la magia di un Paese che sognava da anni. Ed ora, che navigava verso la piana dei mille templi che aveva stregato Marco Polo, sperava che quello stesso splendore restituisse un motivo al suo viaggio. Ma poi, in una mail di qualche giorno dopo, mi ha descritto la visita a Bagan come l’ennesimo tour de force. Il che ci ricorda, ancora una volta, che non è ciò che vediamo, ma come lo viviamo a portare unicità e calore a qualsiasi itinerario.
Se siete liberi di seguire l’istinto, ecco che di Bagan non ricorderete solo il classico spettacolo della sua piana all’alba. Ma anche il piacere di tornare a dormire subito dopo; la lentezza di un pomeriggio in bicicletta tra i templi; e una bella chiacchierata con qualcuno che avete incontrato nella guest house. L’esperienza di Damaso vi può sembrare estrema, ma non troppo visto che anche partire in due esige costanti compromessi. La bellezza di condividere esperienze ed emozioni con chi fa parte del vostro mondo è un vantaggio che viaggiare in solitaria non ha. Ma significa rinunciare ad avere carta bianca sull’improvvisazione. Quel misto di istinto e curiosità, unico e personale, che vi fa vedere e sentire in modo più intenso un luogo e la sua gente. E che fa di un viaggio qualcosa che vi rimane nel profondo dell’anima.
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Un risveglio imbarazzante
Una slow boat governativa è un’enorme testuggine a due piani forse in servizio dai tempi dell’imperialismo inglese, all’inizio del secolo scorso. La impiegano per trasportare merci e passeggeri per lunghi viaggi, come l’epica traversata di due o tre giorni da Katha a Mandalay. I birmani sono abituati a dormire distesi sulle assi di legno del grande ponte, mentre io, vinta dal gelo e l’umidità della notte, per circa 30 euro ho ceduto alla cabina (immaginatevi la stanzetta di un pronto soccorso abbandonato), un privilegio che pochi birmani possono permettersi.
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Quando all’alba, e con la nebbia che si tagliava a fette, hanno servito la colazione su un tavolone comune, il mio arrivo ha generato un certo scalpore. C’era chi mi scrutava furtivo, chi mi fissava stupito e chi mi guardava male. Parlavano di me, tra loro, e ovviamente non li capivo. In più l’odore nauseabondo del Mohinga (la zuppa di pesce con cui i Birmani fanno colazione) mi faceva sentire ancora più un’estranea. In quel momento di malessere generale, non c’era niente che avrei voluto di più di un cappuccino e un’amica con cui ridere. Ciò nonostante mi sono seduta davanti a una ciotola di riso e ho rotto il ghiaccio con un goffo tentativo di parlare birmano. Tanto è bastato per trasformare l’imbarazzo di tutti in una risata liberatoria, e da quel momento è stato come fare colazione in famiglia.
Penso che se quella mattina non fossi stata da sola, non mi sarei sforzata. Loro mi avrebbero tenuta a distanza e io non mi sarei sentita parte del loro mondo. Sappiate che la gente si avvicina più volentieri quando viaggiate da soli, perché sembrate più interessanti, meno minacciosi, e perché il desiderio di conoscere vi si legge in faccia. Questo fa si che, ovunque andrete, l’avventura umana si rivelerà il più grande tesoro di in viaggio in compagnia di voi stessi.