A Tafraoute, in Marocco, tra natura, sport e magia
Tafraoute potrebbe sembrare soltanto un villaggio nella grande distesa interrotta da deserti e catene montuose che è il Marocco. Potreste pensare che si tratti una sosta conveniente durante un viaggio dall’oceano al deserto o di ritorno verso Marrakech. Certo, lo è. Ma se pensate di dedicargli il tempo di una notte e via, allora state per fare un grande errore. Perché Tafraoute non è una gemma, ma uno scrigno intero di quelle esperienze preziose che si cercano quando si viaggia, che siate sportivi, esploratori o inguaribili romantici.

Ci arrivo da Amtoudi, un villaggio berbero con un solo bar in cui convergono necessariamente i viaggiatori, lasciandosi portare dalla strada. All’ombra delle palme, tra gatti e tè, il cameriere indica la strada per arrivare all’agadir, un antico granaio fortificato che sorge su una formazione rocciosa alta e sottile che si staglia sul villaggio. La visita tra i cunicoli che per secoli hanno protetto le scorte degli abitanti del luogo, il silenzio e la strada che corre tra terra rossa e palmeti rendono ancora più suggestivo l’ingresso a Tafraoute.

Mentre l’auto scorre lenta tra limiti di velocità e dossi, ho tutto il tempo di godermi il benvenuto del Châpeau de Napoléon (Il Cappello di Napoleone), una suggestiva formazione rocciosa levigata dal vento che si trova nel villaggio di Aguerd-Oudad, 3 km a sud di Tafraoute. Ma meglio venirci a piedi o in bicicletta, per godersi il fascino del luogo.
Del resto, prima di dedicarmi alla contemplazione della natura ho ancora una missione: trovare la Maison Traditionelle, a Oumesnate: un hotel costruito sul fianco della montagna interamente in fango e paglia, seguendo i dettami dell’architettura tradizionale. Qui si trova anche casa-museo situata sul fianco della montagna: una costruzione in granito di tre piani, con tanto di palme e alberi di argan, che ha circa quattro secoli, fino al 1982.

Parcheggio l’auto nel posto sbagliato, regalandomi una passeggiata imprevista tra borghi semi deserti, giardini, ruscelli e ulivi. Arrivo appena in tempo per godermi il tramonto dal terrazzo: rocce infuocate abbracciano la piana rigogliosa che porta verso la città. E capisco che una notte non basterà.
Cosa fare a Tafraoute
Il primo impatto con la cittadina avviene di sera, ovvero quando è al meglio della sua vitalità, scampato il caldo e accese le griglie. Un pasto tradizionale a base di tajine, un giro per il bazar ed è subito evidente la notevole offerta di esperienze outdoor: trekking, mountain bike, arrampicata. Vi basterà una passeggiata per entrare in contatto con ottimi tour operator locali (trovate i chioschi a ovest dell’Hôtel Salama).
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L’oasi di Afella-Ighir
Tafraoute si trova all’incrocio di diversi ambienti, ognuno dei quali sembra regalare un viaggio a sé. Il primo che affronto è quello delle gole e dalle oasi di Afella-Ighir, a sud-est. Lasciando Tafraoute sulla strada Aguerd–Oudad, si attraversa il passo di montagna del Tlata Tasrirte fino all’inizio delle scenografiche Gole di Aït Mansou. Sebbene sia possibile attraversare la gola a bordo di un’auto, è meglio fare un’escursione a piedi, in mountain bike, o sedendosi a sorseggiare un tè nelle piccole botteghe che si incontrano durante il percorso, così per dare il tempo agli occhi e alla mente di abituarsi a questo fiume di palme che squarcia di verde il rosso delle gole.
La strada attraversa una serie di villaggi arroccati sopra l’oasi tra cui Tiznit, Souq el-Had Issi (un villaggio che ospita i minatori della vicina miniera d’oro), Aït Herbil e Ukas, dove si possono ammirare alcune spettacolari incisioni rupestri, che riuscirete però a trovare soltanto con l’aiuto di una guida. Ogni tanto lasciate la strada principale e fate un giro tra le case o tra le palme per scoprire diversi punti di vista su questo paesaggio in cui tutto è rigoglioso e un po’ nascosto.

La Valle di Ameln
Per provare un’esperienza diversa (e perché d’estate nell’Anti Atlante fa caldo) cambio sistemazione di qualche chilometro, optando per relax con piscina vista montagne rosso fuoco all’Auberge Kasbah Chez Amaliya. Eppure l’ozio non mi trattiene a lungo: le montagne che sto fissando custodiscono un reticolo di villaggi berberi (circa 26) collegati da stradine e sentieri: la Valle di Ameln.

Occorrerebbero settimane per completare il circuito o, in alternativa, da Oumesnate parte un itinerario di cinque giorni che attraversa luoghi di una bellezza straordinaria: il percorso tocca numerosi villaggi, sale fino a Tagdichte e raggiunge la vetta del Jebel L’Kest. Io ho poco tempo e scelgo di raggiungere in auto alcuni villaggi e di dedicarmi ai trekking che li circondano, come a Anirgui o Anamr. Questi villaggi sono stati restaurati grazie ai soldi che la diaspora marocchina ha fatto arrivare negli ultimi decenni: sono curati in ogni dettaglio in modo che la contemporaneità sia a servizio della tradizione. Passeggiando lungo un ruscello incontro tre signore che vi lavano i panni. Sono vestite con abiti tradizionali, prendono il fresco all’ombra della vegetazione e sono in vena di chiacchiere, sebbene non abbiamo lingue in comune. Condividiamo la loro uva, le mie mandorle e uno di quei momenti in cui il viaggio assume più significato di quello che esprimerebbero le delle parole per descriverlo.

Le pietre azzurre, una storia d’amore
Arrivo al terzo giorno con la consapevolezza di aver trovato uno di quei luoghi che da subito piantano dentro di te un paletto e ti segnano. E sebbene la definizione di questa cittadina come un avamposto per amanti di trekking mi sembri già decisamente limitante e riduttiva, è alle “Pierres bleues” che ne ho la prova.
Avete presente quelle giornate in cui sei in un posto bellissimo, ma per qualche sciocchezza hai litigato con il tuo partner, magari verso la fine del viaggio, quando già la vita sembra meno promettente data l’imminenza del ritorno? Ecco, era uno di quei giorni quando “dovevamo” andare a vedere le pietre azzurre, l’opera dell’artista belga Jean Verame che consiste in una serie di enormi massi levigati dalla natura e dipinti da Verame di blu, rosso, rosa e nero. Avevo dato un’occhiata su Google e le foto non promettevano nulla di speciale. Eppure la camminata lungo il sentiero al tramonto e la scoperta di questi massi che si svelano uno dopo l’altro, a seconda di dove ci si arrampica e di quanto si procede nella passeggiata, ha reso il set perfetto per entrare in empatia con l’opera, fatta dall’artista nel 1984 come tributo alla moglie defunta. Che si tratti dell’arte, dell’energia naturale di cui è carica Tafraoute o del potere della suggestione, non poteva esserci una fine più appropriata a questa tappa di viaggio in Marocco.