In viaggio lungo il mitico Zambesi
Se nel 1958 un visitatore avesse osservato il paesaggio dalla cresta delle Bumi Hills, avrebbe potuto essere distratto dalla vista di un uomo a torso nudo con un cappello floscio in testa che cercava di legare un elefante a una zattera di legno. Rupert Fothergill, capo delle guardie forestali responsabili della fauna nell’allora Rhodesia, l’odierno Zimbabwe settentrionale, era incaricato di trasferire gli animali rimasti bloccati in seguito alla creazione del nuovo Lake Kariba.

I filmati sgranati dell’epoca lo mostrano in una serie di situazioni difficili: immerso nell’acqua fino alle spalle mentre tiene fra le braccia un irace (simile a un coniglio) che si divincola; mentre cerca con nonchalance di allontanare un rinoceronte facendo sciò con il cappello; e mentre issa nella sua barca un babbuino fradicio sollevandolo per le spalle. Quando l’‘Operazione Noè’ si concluse nel 1964, Fothergill e la sua squadra avevano tratto in salvo oltre 6000 animali.
Oggi, dal punto di osservazione delle Bumi Hills, il Kariba sembra più un mare che un lago. Sulla riva, piccoli branchi di elefanti, bufali e ippopotami brucano l’erba verdissima. Guardando dritto avanti si intravedono appena le grigie colline corrugate dello Zambia, ma a destra e a sinistra non c’è altro che acqua; il traghetto per le auto che ogni settimana traccia una linea regolare tra le onde da est a ovest impiega 24 ore per completare la traversata. A oltre 50 anni dalla sua creazione, il Kariba rimane il lago artificiale più grande del mondo per volume d’acqua. E tuttavia c’è chi lo considera una variazione temporanea, destinata prima o poi a scomparire.
Secondo la mitologia della popolazione locale dei tonga, nello Zambesi vive il dio del fiume, Nyami Nyami, un gigantesco drago con il corpo di serpente e la testa di pesce che provvede ai tonga nei momenti di difficoltà. Nel 1957 e poi di nuovo nel 1958 lo Zimbabwe fu colpito dalle inondazioni più gravi documentate nella sua storia: per due volte la barriera costruita per creare il Lake Kariba fu spazzata via dall’acqua. Nyami Nyami è arrabbiato, dissero i tonga, non vuole la diga. I giornali locali riportano ancora gli avvistamenti di un bestione lungo 200 m tra le acque del lago, e i terremoti della regione vengono attribuiti al mostro che va a sbattere contro la diga nel tentativo di raggiungere sua moglie, rimasta bloccata sull’altro lato.

Student Muroyiwa, una guida locale, è cresciuto ascoltando queste storie. In pantaloni corti e camicia da safari (indumenti che sarebbero familiari a Fothergill), pilota la sua barca tra le cime degli alberi. Con i loro rami anneriti che sporgono dalla superficie del lago come macabre dita, gli alberi sono tutto ciò che resta di una foresta di mopane che un tempo rivestiva la gola del Kariba, scomparsa quando il corso dello Zambesi fu bloccato dalla diga. Sui loro rami si appoggiano i cormorani, che si alzano in volo solo per poi tuffarsi all’improvviso sotto la superficie, mentre le rondini appena giunte dal loro soggiorno estivo in Europa fanno incetta degli insetti che riempiono l’aria.
Student indica un’isola a cui è stato dato il nome dell’ultimo uomo ad aver lasciato la valle mentre il livello dell’acqua si alzava tutt’intorno a lui. “Mola credeva in Nyami Nyami e sapeva che il dio del fiume non voleva la diga. ‘Non se ne parla che l’acqua attraversi la mia soglia’, diceva. Ma poi l’acqua iniziò a salire e invase anche la sua casa”, spiega Student. “Alla fine, Mola si infilò nella sua canoa e se ne andò”.
Anche la madre di Student, Unarie, lasciò la valle quando fu creato il lago, percorrendo a piedi 19 km verso l’entroterra per raggiungere il nuovo villaggio destinato ad accogliere i tonga. La incontro seduta all’ombra della sua casa di mattoni di fango dal tetto in paglia, vicino alle pentole messe al sole ad asciugare. Nei piccoli campi curati dalla sua famiglia crescono pomodori, patate dolci, gombo e mais.
All’estremità del loro gruppo di capanne sorge una torre di osservazione vuota; di notte uno dei suoi nipoti sale a fare la guardia contro gli animali predatori come leoni, iene ed elefanti. “Sono troppo vecchia per andare fino al lago”, dice Unarie, “ma la mia vita nel vecchio villaggio era perfetta. Non ho mai visto Nyami Nyami, ma sarei davvero felice se volesse rompere la diga”.
Finché non arriverà quel giorno, tutti devono adeguarsi allo sbarramento dello Zambesi. Circa 160 km a valle del Kariba, il fiume continua il suo placido e sinuoso viaggio verso l’Oceano Indiano. Nella pianura alluvionale crescono boschetti di Faidherbia albida, imponenti alberi simili a querce che conferiscono al paesaggio un aspetto stranamente familiare: se non fosse per le zebre che si aggirano sotto i rami, si potrebbe pensare di essere a Richmond Park in una soleggiata giornata estiva.

Cloud Magondo ha iniziato la sua formazione di guida naturalistica nelle Bumi Hills e poi si è trasferito qui nel Mana Pools National Park. Aggiustandosi il berretto da baseball con la scritta ‘I ♥ Jesus’, Cloud entra nella sua canoa e si allontana dalla riva. Una pavoncella fabbro si alza dal suo nido in un giacinto d’acqua e manifesta la sua ostilità con una frenetica sequenza di furiosi cinguettii. In superficie affiorano gli occhi e le orecchie di un ippopotamo. Cloud dà un colpo di remo sul lato della canoa. “Meglio evitare di cogliere di sorpresa un animale di tre tonnellate”, dice. “Se ti insegue, non ce la fai a seminarlo. Restano solo i pezzi”. L’ippopotamo si alza e comincia a muoversi verso di noi nello stretto canale, sollevando una cresta d’acqua davanti a sé. Dopo qualche secondo di tensione, in cui ci aspettiamo che si tuffi sotto la barca e ci lanci in aria verso la pavoncella, l’ippopotamo prosegue dritto. “Adesso dobbiamo solo preoccuparci dei coccodrilli”, dice Cloud, con il sorriso di chi si diverte un mondo a innervosire i visitatori meno abituati di lui agli animali selvatici africani.
Scendiamo dalla barca per andare in cerca dell’animale più famoso del Mana Pools. Cloud avanza lentamente tra la vegetazione bassa, scavalcando vivaci fiori rossi caduti dagli alberi delle salsicce, e si ferma ad ammirare un serpente verde macchiato arrotolato intorno a un ramo. Gli impala intenti a brucare sollevano lo sguardo e corrono via spaventati.
Un robusto eland si ferma più a lungo, poi si allontana verso i cespugli con passo altezzoso. “L’abbiamo trovato”, dice Cloud accovacciandosi. “Ecco Boswell”. Più avanti, sotto una Faidherbia le cui fronde ondeggiano leggermente, vediamo un elefante vecchio quanto il Lake Kariba, con lunghe zanne e un grosso cranio. Il pachiderma alza la proboscide verso i baccelli dei semi che pendono dalla chioma dell’albero, inarca il dorso e si solleva in aria, rimanendo in equilibrio per sei secondi sulle zampe posteriori come un cane implorante, e tirando i rami verso di sé.

Iscriviti alla nostra newsletter! Per te ogni settimana consigli di viaggio, offerte speciali, storie dal mondo e il 30% di sconto sul tuo primo ordine.
Boswell e qualche altro elefante della zona sono considerati gli unici elefanti al mondo a sollevarsi sulle zampe posteriori, un comportamento che si è osservato solo negli ultimi 30 anni. Un’ipotesi che è stata avanzata per spiegare il fenomeno è che gli esemplari di Faidherbia siano diminuiti in seguito allo sconvolgimento dell’ecosistema del parco provocato dalla costruzione della diga sullo Zambesi, rendendo così più accanita la competizione per accaparrarsi i baccelli. “Boswell è intelligente”, bisbiglia Cloud mentre l’elefante raccoglie i baccelli rossi con la proboscide e se li infila in bocca. “Ha capito che per sopravvivere deve essere l’elefante che arriva più in alto di tutti”.
Boswell non è l’unico elefante ad aver modificato il proprio comportamento negli ultimi anni. Nelle propaggini occidentali dello Zimbabwe, lontano dalle rive dello Zambesi, si estende il Hwange National Park. Nel cuore della stagione secca la vegetazione consiste solo in cespugli spinosi incolti radicati nel terreno portato dal vento dal Deserto del Kalahari. Qui non c’è un dio del fiume a venire in soccorso nel momento del bisogno, ma Hwange non è stato abbandonato. Lo spirito di Fothergill è ancora vivo. “Senti quel rumore?” mi dice Adam Jones, guida apprendista, fermando la nostra Jeep. Nell’aria calma risuona il ritmo regolare di una pompa dell’acqua. “Quello che stai ascoltando corrisponde al battito cardiaco del parco”.
I primi pozzi di Hwange furono trivellati nel 1929, consentendo di mantenere alto artificialmente il livello dell’acqua nelle pozze quando piove. Gli animali del parco associano oggi il suono delle pompe alla promessa dell’acqua. Un breve tragitto lungo una pista accidentata rivela una pianura costellata di masse grigie in movimento. Gli elefanti arrivano da ogni angolo delle pianure, correndo sul terreno polveroso con le proboscidi che si agitano. Giunti alla pozza d’acqua, bevono, sguazzano nell’acqua bassa, si rotolano nel fango, inseguono i coccodrilli e i babbuini e si rincorrono a vicenda, emettendo versi di gioia.
I tragitti che portano alle pozze d’acqua sono quelli che vengono usati dagli elefanti da centinaia, se non da migliaia, di anni. Formano sentieri ben distinti attraverso la vegetazione, chiaramente segnati come se fossero tracciati con l’asfalto. Oggi anche gli uomini li seguono, tra cui molti dietro alla figura rassicurante di Julian Brookstein, fucile in spalla e occhiali a specchio spinti indietro sulla testa. “Se ti perdi da queste parti”, spiega, “segui i sentieri degli elefanti: ti porteranno sempre all’acqua”. Non siamo gli unici a passare di qui: sul sentiero ci fanno compagnia tracce fresche di ghepardi, iene e porcospini, e piccole antilopi saltarupi balzano dalle alture di granito che spuntano dal terreno polveroso. Passiamo accanto allo scheletro completo di un vecchio elefante maschio, con le lunghe zanne stese a terra in mezzo al mucchio di ossa. “Dove muore un elefante giace il suo avorio”, dice Julian, fermandosi a osservare i resti. “Purtroppo oggi è un idea romantica”.
Da quando ha iniziato a lavorare come guida professionista per safari a piedi, sei anni fa, Julian ha avuto molti incontri con elefanti vivi e con quasi tutti gli altri animali selvatici. Non ha ancora sparato un colpo di fucile per difesa. “Il 90% di un incontro dipende dalla tua reazione”, spiega. “Questi animali sono abituati a vedere gli altri animali che fuggono davanti a loro e sono programmati per inseguirli. Se invece cammini verso di loro si ritirano”. Certo, è la cosa che ti viene meno istintiva quando ti trovi davanti una massa di muscoli e ossa di sette tonnellate, ma ben presto abbiamo la dimostrazione che Julian ha ragione.
Un elefante maschio di 50 anni, gigantesco visto da terra, non gradisce la nostra presenza e carica verso di noi, con le grandi orecchie che sventolano mentre acquista velocità. Julian continua a camminare verso di lui, agitando le braccia e dando calci alla polvere. L’elefante arriva a pochi metri di distanza, si ferma con un’aria un po’ incerta e infine gira i tacchi e se ne va sbuffando indignato. “Un leone è un po’ diverso da un elefante”, dice Julian mentre risaliamo sulla Jeep. “Ringhia per farti capire che sei arrivato abbastanza vicino, come per dire ‘Fermati lì e saremo ancora amici’”.

Buono a sapersi, visto che Hwange è un’area piena di leoni. Di notte i loro richiami bassi e profondi riecheggiano attraverso le pareti di tela delle nostre tende, e la loro presenza è costante intorno al campo. A qualsiasi ora del giorno li si può vedere che si riposano accanto a una pozza d’acqua nei paraggi, mentre osservano con indifferenza le giraffe che si avvicinano caute per abbeverarsi; oppure mentre tengono d’occhio i piccoli che ruzzolano l’uno sull’altro e saltano sui loro genitori; o ancora stesi nella piccola ombra di un termitaio. C’è anche una new entry, un maschio giovane appena arrivato, abbastanza saggio da tenersi in disparte dal branco locale. Si è trovato un angolino in cui nascondersi e tenersi lontano dai guai, e i suoi occhi gialli si guardano intorno incessantemente per avvistare il pericolo. “Si rende conto perfettamente di trovarsi nel territorio di altri leoni”, dice Adam. “Li avrà sentiti ruggire tutta la notte. Dev’essere spaventato”.
Forse il leone giovane troverà il coraggio di restare e di combattere per il suo spazio contro il maschio dominante. Vista la sua indole nervosa, è più probabile però che si sposti in cerca di un territorio in cui iniziare un proprio branco, attraversando lentamente il bush e oltrepassando le pozze d’acqua con il loro costante sottofondo di suoni. Recentemente un leone di Hwange è stato seguito dai ricercatori fino alle Cascate Vittoria, a quasi 200 km di distanza.

Difficile immaginare un paesaggio più diverso da quello di Hwange. La presenza delle cascate si avverte già da lontano attraverso il bush. Prima si sente un debole brontolio, come il traffico dell’ora di punta su un’autostrada lontana, udibile a chilometri di distanza. Poi si comincia a scorgere all’orizzonte una bassa nuvola grigia. La forza di Mosi-oa-Tunya (‘il fumo che tuona’), nome indigeno delle cascate molto più calzante, si mostra in tutta la sua potenza quando la pianura scompare all’improvviso. Lo Zambesi compie un salto di 100 metri, colpendo il suolo con tale forza da creare una nebbiolina che si leva in aria per 400 m, come se la pioggia avesse deciso di cadere verso l’alto. I visitatori in cammino lungo i sentieri che costeggiano le cascate sono ben presto inzuppati dagli schizzi. Altri entrano nelle piscine naturali ai margini delle cascate, mentre i più spericolati si lanciano con il bungee jumping dal Victoria Falls Bridge, sfidando tutte le comuni norme di autoconservazione. Scrutando nel baratro che si apre nella superficie terrestre, non c’è modo di scorgere il fondo, solo un tumultuoso turbinio di nuvole trafitte da una serie di arcobaleni. Se Nyami Nyami dovesse scegliere una tana da cui sferrare l’attacco finale alla diga di Kariba, sarebbe qui, in questo abisso. Un giorno il dio si risolleverà per reclamare il suo fiume. È solo una questione di tempo prima che ciò accada.
Questo articolo è apparso su Lonely Planet Traveller Magazine. Amanda Canning ha viaggiato nello Zimbabwe grazie al supporto di &Beyond. I collaboratori Lonely Planet non accettano omaggi in cambio di recensioni positive.