Viaggiare per non avere paura: in memoria dei ciclisti uccisi in Tajikistan.
Domenica 29 luglio, a circa 60 chilometri a sud della capitale del Tagikistan Dushanbe, 4 ciclisti (due americani, uno svizzero e un olandese) sono morti in un attentato, poi rivendicato dall’ISIS. Lo stesso giorno, il nostro autore Luigi Farrauto, si trovava nello stesso tratto di strada, lungo il suo percorso dal Tajikistan a Hong Kong sulla la Via della Seta. Per quel bisogno condiviso di vedere il mondo, di solcarlo e di capirlo, Luigi ha scritto un articolo, in memoria di Lauren e Jay, che da 369 giorni giravano il mondo in mountain bike. Per ricordarci che la paura non può vincere contro la curiosità e il bisogno di comprendere l’altro che chi viaggia porta con sé.
Sul tram che di solito mi riporta verso casa, dopo ogni viaggio, io mi sento invincibile. Dopo migliaia di chilometri di strade, dopo scali aerei, stazioni dei treni e pensiline degli autobus, dopo avere incrociato migliaia di sguardi di ogni forma e profondità ciò che più mi rimane addosso è un’assenza, l’assenza di paura.
Lauren e Jay,
la vostra storia mi ha perforato il cuore. Non per sensazionalismo, o per lo scampato pericolo all’idea di essere passato per quella strada forse un’ora prima di voi, ma perché io, come voi, condivido quella passione smodata per il mondo e amo impacchettarla in uno zaino e partire; faccio parte di quella comunità di vagabondi che quando si incontra si riconosce senza neanche parlarsi. Lo dico con la presunzione di chi non vi ha mai incontrato, ma sa che in un certo senso siamo stati compagni di viaggio, lungo le strade del Tajikistan. Con voi e con decine di altri viaggiatori ho condiviso curve, strade sterrate e paesi sperduti nelle montagne. Ci siamo raccontati strade passate e future, ci siamo incitati a vicenda in quelle salite, scambiandoci pastiglie per lo stomaco nelle stazioni di servizio.
“Siamo sulla stessa barca”: quante volte l’ho detto e sentito dire in viaggio. È la parola d’ordine di ogni viaggiatore, quel sentirsi parte di una comunità che esiste e ha senso solo se si sposta, solo se è in movimento, solo se condivide ogni cosa. Ma con voi e con altri ho condiviso soprattutto l’ospitalità dei tajiki, tra le persone più gentili che nessuno di noi avesse mai incontrato prima. Noi viaggiatori ‘accaniti’ siamo visti come intrepidi avventurieri, giovani incoscienti, personaggi esotici. Dei “sognatori”, se le cose vanno a finire male. Ma forse siamo solo più curiosi. Siamo affamati di quella “magia che è là fuori”, in giro per il mondo. E non c’è barriera, frontiera o confine che ci possa saziare. Voi avete viaggiato per 369 giorni in 24 paesi senza mai fermarvi, spinti dall’entusiasmo, da un’adrenalina che fa sentire vivi, la stessa motivazione che porta a programmare un nuovo viaggio prima ancora di averne concluso uno. Eravate stracolmi di vita e di mondo, fino a quando il destino vi ha fatto passare per quella strada, proprio in quel momento.
Lauren e Jay,
chissà quante volte, prima del vostro viaggio, vi hanno chiesto se foste matti ad attraversare posti dai nomi tanto minacciosi. E chissà quante volte avete ripensato a quelle parole quando, ospiti di una famiglia sudafricana, ungherese o tajika, avete bevuto un tè bollente assieme a perfetti sconosciuti e non vi siete mai sentiti tanto benvenuti e a vostro agio. Le paure hanno migliaia di forme ma il coraggio è uno solo, è quello il bello. E voi lo sapevate bene. Non vi ha spaventato la lunga distanza da percorrere, l’altitudine, la desinenza in “-stan” dei paesi che stavate visitando.
Perché da vicino ogni cosa fa meno paura: un popolo sconosciuto si rivela la somma di tante persone decisamente normali. La paura non vi avrebbe mai impedito di viaggiare, perché la paura del mondo, dell’altro, del diverso o del più povero, voi la rifiutavate. O meglio, con chi viaggia non attacca. Io non credo che il male non esista. Se non esistesse, ora stareste portando a termine il vostro viaggio. Il pericolo esiste eccome, ma non ha passaporto. Il male ha un involucro umano che non prescinde dalla geografia, e nel vostro caso si è manifestato sotto forma di cinque idioti con i coltelli in mano e accecati dalla paura. Gente a cui viaggiare avrebbe fatto molto bene. Il mondo che vi hanno obbligato a lasciare è sempre più un mondo diviso in due: i curiosi contro i sospettosi. Quelli che amano le differenze e trovano nel diverso il bello dell’esistenza, e chi preferisce la diffidenza, il rancore, la segregazione. Chi lascia le porte di casa aperte e chi ci si chiude dentro per paura. Chi apre i confini e chi li chiude. Sta diventando sempre di più un noi contro loro, ovunque, in qualunque ambito dell’esistenza, persino nella sfera privata. Anziché essere un tutti noi, vivere è sempre più una battaglia ideologica tra opposte fazioni. Ma viaggiare ci insegna che siamo molti più noi. Noi che preferiamo esaltare la bellezza e la differenza, anziché trincerarci nel sospetto. È il mondo, a insegnarcelo.
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Lauren e Jay,
io voglio ringraziarvi per averci dato un esempio di quanto viaggiare, in qualunque maniera, sia uno dei modi più efficaci di aiutare gli altri, noi stessi, la comunità. Perché chi viaggia è portatore sano di quei valori che sono il più grande ostacolo alla diffusione dell’odio. Chi viaggia riporta a casa quella semplicità disarmante che rende normale ciò che ai più appare minaccioso. Lo sanno tutti quelli che girano il mondo per vedere che cosa c’è dietro, e di certo lo sapevate anche voi.
Io devo molto al mondo: viaggiando ho imparato anche a sorridere. Tiziano Terzani è riuscito a scampare a un plotone d’esecuzione facendo così, sorridendo, spiazzando i suoi aguzzini con l’arma più affilata che la vita ci ha dato, perché all’empatia non è dato sottrarsi. È un magnetismo che incolla il corpo al cuore. Viaggiare è esaltare la partenza e celebrare il ritorno, e purtroppo qualcuno ha deciso per voi che non ci sarebbe stato ritorno.
Non eravate dei “sognatori”. Eravate due persone che hanno fatto una scelta come tante altre, come tanti altri. Volevate “ridare indietro qualcosa al mondo”: chi viaggia è consapevole di ricevere più di quanto dà, per questo rincorre la bellezza e trova la diversità, nuovi valori, altri occhi per guardare. Si perde nelle differenze culturali, in quegli equivoci meravigliosi che riempiono la memoria. Tornati a casa abbiamo una sola certezza: viaggiare non è andare lontano, ma riuscire a guardare in maniera diversa chi hai vicino. Il nostro dovere è quello di restituire la tolleranza e il coraggio che il mondo stesso ci fa scoprire. Perché la vera frontiera siamo noi stessi: ci siamo noi, “oltre il mare”, noi e i nostri limiti, e la nuova sfumatura di noi stessi che ogni viaggio ci fa riscoprire, al ritorno, sul tram verso casa, quando forti del mondo ci sentiamo meno soli e sappiamo come sorridere e non abbiamo paura di niente.