La libertà di correre: essere donna nella Maratona dell’Afghanistan
Per molti, correre è sinonimo di libertà. Per alcuni impavidi attivisti – e ancora più temerari runner locali – rappresenta anche una lunga cavalcata verso l’uguaglianza: ecco cosa significa correre la Maratona dell’Afghanistan, soprattutto se si è una donna.
Dopo tre ore di corsa eravamo a malapena a metà strada. Stavo impiegando quasi il doppio del mio miglior tempo in una maratona su strada, ma non m’importava: stavo correndo in uno degli angoli più splendidi del pianeta, immersa nella storia. Partecipavo all’edizione inaugurale della Maratona dell’Afghanistan, insieme a Zainab, unica concorrente donna afghana, in un paese dove non solo lo sport risponde alle rigide regole della politica tribale, ma dove spesso alle donne è fatto divieto assoluto di prendere parte a eventi simili.
Era una frizzante mattina d’autunno nella provincia di Bamiyan ed entrambe faticavamo a respirare per via dell’altitudine. Zainab sapeva di essere sotto i riflettori di un esercito di curiosi, sostenitori, strenui oppositori. Era il 2015 e in Afghanistan una donna che correva da sola era un evento raro. Lo capii quando passammo di fronte a un gruppo di donne interamente coperte dall’onnipresente burkha. Proprio per questo ero disposta a correre più lontano di sempre.
L’Afghanistan non è ancora pronto per diventare la nuova meta del running mondiale. Le vittime tra i civili sono ancora troppe e in molte aree del paese la guerra imperversa. Esiste tuttavia una regione relativamente pacifica, un angolo incantevole sull’Altopiano Centrale a 30 minuti di volo da Kabul, nella provincia di Bamiyan. Considerato uno dei più sicuri del paese, non è quasi per nulla interessato dal conflitto in atto nei restanti territori. La città di Bamiyan, il cui nome significa ‘Luogo della luce che brilla’, ha profonde radici storiche. Da ogni punto della città sono visibili le nicchie vuote che accoglievano le due celebri statue del Buddha scolpite nelle pareti di roccia, nella Valle di Bamiyan (parzialmente distrutte dai talebani nel 2001). La popolazione di Bamiyan, sede del primo sci-club dell’Afghanistan e di un’annuale gara sciistica, è abituata ad assistere a competizioni sportive nella zona.
Qualche anno fa, Jamex Willcox, titolare di un’agenzia specializzata in viaggi avventura, chiese all’inglese James Bingham (attuale direttore della maratona) la disponibilità a organizzare lo storico evento. Forti di una lunga esperienza, i due diedero vita a una manifestazione alla quale potesse partecipare chiunque, anche se nessuno di loro aveva idea di come avrebbe reagito la popolazione alla presenza di Zainab.
Fu una delle ragioni per cui anch’io vi presi parte. Come presidente e fondatrice di Free to Run, un’associazione benefica che utilizza lo sport e le attività all’aria aperta per formare leader di sesso femminile in zone interessate da conflitti, e avendo partecipato a decine di grandi corse, avevo particolarmente a cuore la diffusione del running in Afghanistan. Ero convinta che vietarlo alle donne avrebbe potuto arrestare il già difficile processo di conquista della parità di genere.
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La mattina della gara, in pantaloni ampi, maniche lunghe e scaldacollo al posto dello hijab, raggiungemmo in fuoristrada la partenza, a 42 km dal centro città. Faceva freddo, entrambe saltellavamo per scaldarci e il cuore ci batteva a mille. C’erano i presupposti perché quel gran giorno si trasformasse in un evento rivoluzionario, ma anche che degenerasse in tragedia.
La maratona era preceduta da una 10 km aperta a chiunque, nonostante la partenza scaglionata di uomini e donne volta a evitare la vicinanza fisica. In realtà, già pochi secondi dopo il via degli uomini le ragazze scalpitavano e non ci volle molto perché scattassero oltre la linea di partenza nel tentativo di recuperare. Bambine di dieci anni in sandali o ballerine sgomitarono e spintonarono verso le prime linee. Era gioia pura, eccitazione per la possibilità di correre libere.
Arrivato il nostro turno, Zainab e io ci allineammo dietro un gruppetto di afghani. Qualche straniera faceva capolino qua e là, ma i riflettori erano puntati su Zainab. Subito dopo lo sparo ci ritrovammo avvolte nella fredda aria di montagna che scendeva dall’Hindu Kush.
Corremmo in solitaria per i primi 20 km, lungo la strada asfaltata fiancheggiata sui lati da sabbia arancione, al nostro passo, in pace. Le poche auto di passaggio sterzavano, superandoci con un colpo di clacson. I ristori traboccavano di ciambelle, frutta, uvetta, nocciole, acqua e succhi di frutta, anche se al nostro arrivo le scorte erano ormai terminate.
Sulla via di ritorno a Bamiyan, il paesaggio cambiò. Dalla campagna spuntarono bassi edifici costruiti con fango ed erba e ovunque si vedevano ordinati campi coltivati. Il traffico aumentò e cominciammo a condividere la strada con mezzi di ogni genere, dalle automobili ai camion, fino ai carri trainati dai muli.
Alle porte della città lo smog cominciò a intasarci naso e bocca, tanto che dovemmo alzarci lo scaldacollo fin quasi agli occhi. La gente di fronte alle botteghe ci guardava con occhi sgranati. Li salutavamo sorridenti, continuando a macinare chilometri. I bambini ridevano e qualche anziano barbuto ci lanciava occhiate confuse. Qualcuno tra i più giovani ci salutava di rimando: mi chiesi che cosa si agitasse nelle loro menti al nostro passaggio.
Coperte di polvere, sudore e sale, tagliammo il traguardo, stanche morte. Avevamo impiegato sei ore e mezzo, ma sapevamo di aver colmato una distanza ben superiore a quei semplici 42 km.
Da allora ho corso la Maratona dell’Afghanistan ogni anno. James Bingham la considera un importante simbolo di speranza, diversità e unità nazionale. Ma soprattutto, le afghane che partecipano alla 10 km e alla maratona sono ogni anno sempre più numerose. Non si tratta solo di un’espressione di coraggio, bensì di una maggiore accettazione da parte della popolazione stessa. Amici e familiari mi dicono spesso che sono pazza a correre in Afghanistan, ma dopo averlo fatto con Zainab quel giorno, la vera pazzia sarebbe non farlo.